Care lettrici e cari lettori, è giunto il momento di donarvi l’inizio del romanzo Corpo. Soltanto un attimo  di pazienza per spiegarvi che la fonte di ispirazione è stato il film girato la scorsa estate. I ringraziamenti nei titoli di coda del lungometraggio sono davvero tantissimi, per cui rinvio al precedente post con frammenti del set https://stefanosantachiara2.wordpress.com/2020/01/31/corpo-il-nostro-film-sara-proiettato-nelluniversita-del-connecticut/ .
Per quanto riguarda il libro una menzione speciale merita Costantino Vassallo, architetto e scrittore con la passione per il cinema, autore dell’interessante saggio Drive e le strutture distopiche. E’ stato Vassallo a suggerirmi l’idea, al termine della riprese di Corpo, di creare il romanzo. Forse perché, sfogliandolo, vi inerpicherete nei meandri mitologici del Parco Archeologico Paestum e nei misteri di centri medievali, lungo i sentieri di luce fra la verde montagna e l’iridescenza marina, laddove le relazioni umane disvelano l’interiore profondità, fra l’incanto e gli abissi. O forse perché i dettagli realistici della narrazione traggono linfa da luoghi, sguardi e punti di osservazione, ma anche dagli stati d’animo e dagli interscambi fioriti in modo spontaneo durante i ciak tra attori di teatro e tecnici del nord e del sud. Segnalo in particolare i giovani talenti campani Francesco Guida, co-regista, responsabile del montaggio, già vincitore del festival internazionale di Salerno vent’anni orsono; l’assistente tecnico Enrico Nicoletta e il compositore delle musiche Antonio Sessa. Gli attori e tutti gli altri componenti del cast e della troupe li conosceremo via via che andremo svelando anticipazioni della storia, rigorosamente piccole e iniziali. Non solo perché contrari allo spoiler in genere, ma per il fatto che il film Corpo non sarà visibile al pubblico ancora per molti mesi: parteciperà ai festival del cinema, che richiedono l’inedito, e sarà proiettato all’università del Connecticut nell’ambito delle lezioni di Monica Martinelli, insegnante di Italiano, Letteratura e Storia del Cinema.

Anche il romanzo è autoprodotto e indipendente, si trova solo su Amazon che non apprezzo per lo sfruttamento nei confronti dei lavoratori ma non avevo alternativa: nessuna casa editrice ha scommesso su Corpo malgrado il successo del mio saggio d’esordio http://www.chiarelettere.it/libro/principio-attivo/i-panni-sporchi-della-sinistra-9788861904279.php

Pazienza, so che facendo questa ammissione perderò l’interesse di chi sceglie in base all’importanza dell’editore mentre alcuni lettori affezionati ai libri d’inchiesta (grazie sempre a Chiarelettere, che sfortunatamente non si occupa di narrativa) non seguiranno questo cambiamento di genere. Non c’è problema, Corpo, sia il film che il romanzo, sono una nuova avventura!

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CORPO

I.

Camminava in un meriggio di primavera nel mezzo di una selva oscura, con lo sguardo rivolto all’insù. I raggi solari giocavano a nascondino tra le crine di querce millenarie creando un nobile intarsio sul cielo, a tratti le rischiaravano i capelli color nocciola. Il suo anello a forma di girasole splendeva sul dito mignolo, la luminosità pungente l’induceva a sbattere gli occhi azzurri e a formare sulla bocca un sorriso singolare, sapido e sfrontato.
Camminava sul sentiero parallelo all’unica strada asfaltata che taglia la macchia verde e intanto s’inebriava, la brezza spirava dal golfo mescolandosi agli odori degli aghi di pino e delle resine. Avanzava sicura, sostenuta da piedi piatti stretti nelle scarpe nere da ginnastica e da gambe lunghe e toniche come fusti di piante. Indugiò solamente su un albero che si distingueva per robustezza e altitudine: radicato sul terreno ricco di minerali, profondo e ben drenato, si adattava al gelo e all’estate più calda, alle tempeste e alla siccità. I rami in fiore erano puntati verso l’empireo, eternamente gioiosi. La sua fervida fantasia faceva sì che le mani di quel portento più antico della Magna Grecia pian piano iniziassero a muoversi al modo di Pinocchio ma, a differenza del burattino di Geppetto, esse beneficiassero della facoltà di animali magici: uccelli policromi con le branchie. E così le dita lignee levitavano leggiadre, si libravano con le traiettorie ardite di un albatros, roteavano sul crinale dipingendo orbite ellittiche, fendevano l’atmosfera rarefatta della cima sfiorando le divine nubi, e poi planavano giù fra le cascate e i ruscelli accelerando come le rapide del fiume. Nel mare si divertivano a rasentare l’acqua come il vento che l’increspa prima della burrasca e, alfine, svanivano nel blu infinito senza lasciare traccia.
Così si sentiva Monika, una ragazza di ventuno anni cresciuta in fretta, sgusciata da un passato che le aveva impedito di spiccare il volo. Nella nuova vita, spinta da una sconfinata sete di conoscenza, si era elevata come un albero animato, durante il rigoglioso sviluppo aveva potato i rami secchi dell’ordinario per assaporare i bagliori cangianti del particolare, anche il più apparentemente insignificante. Da allora camminava pure su fondamenta ispide e scivolose. Il piglio determinato e la postura, ritta e imperiosa, indicavano un’ambizione visionaria, tuttavia immune da superbia e cupidigia, dacché era stata capace di rimuovere i sentimenti negativi per custodire gelosamente il côté più esclusivo: la purezza del suo universo interiore.

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Camminava anche quel giorno al ritmo dell’auricolare mentre calpestava per diletto le foglie sul sentiero, quasi a segnare un punto in un moderno videogame importato dall’America. Lo zaino bordeaux, un ricordo di Parigi, le ciondolava sul dorso come se una delicata percussione carezzasse la melodia di Le chic et le charme di Paolo Conte. Monika sceglieva le musiche non in base all’umore ma allo stato d’animo verso il quale sentiva di tendere, erano il preludio e così amava gustare ogni nota, ogni strofa, ogni silenzio. Ugualmente si acconciava la mattina. Se la salopette di jeans, che lasciava scoperte le bianche spalle e metà coscia era funzionale alla scarpinata, la lunghissima e rigorosa treccia sembrava un simbolo epico. Non un archetipo matriarcale o qualche teoria che gli intellettuali potessero confinare in un bolso dibattito sul significato politico e psicologico del look, neppure un’esaltazione estetica delle forme giunoniche sulle quali si accomodava senza malizia. Viceversa, quel serpente che aveva per capelli suggeriva un rapporto di simbiosi con la natura. Ad esempio, nel corso della passeggiata la sua coda si allontanò dal corpo per ficcarsi in un cespuglio: Monika aveva lanciato un bastone nella boscaglia e la treccia, per effetto del movimento, si era avvinta con vigore ad un rametto spinoso. Non c’era verso di staccarla, sicché la ragazza si fece largo con premura nell’arbusto, abitato da tanti piccoli esseri che svolazzavano fra le foglioline ovali. Avvertì un profumo intenso, seguendone la scia scoprì una pianta di rosa nascosta in mezzo ai rovi. V’era un unico bocciolo, in procinto di schiudersi. Invisibile agli animali, quel fiore si presentava di un rosa sì vivo da commuovere.
<<Amazement>> sospirò ammaliata nella lingua che per prima aveva imparato in Unione sovietica, studiando clandestinamente testi occidentali. Le capitava non di rado che qualcuno o qualcosa, d’incanto, la riportasse all’essenza. Il momento era sublime quanto sfuggente, benché non fosse in grado di decodificarne il senso, l’accoglieva con letizia ascendente. Proprio come un’artista con la sua opera, arrivava a immedesimarsi nell’oggetto, in un attimo la cui relatività temporale soggiace alle leggi della creatività. Ora Monika sarebbe stata quella rosa per tutte le volte che avrebbe desiderato in futuro, un turgido bocciolo che è sempre sul punto di svelarsi, adornato di minuscole gocce di rugiada, vezzeggiato da buffe coccinelle, baciato da frizzanti api, corazzato di spine necessarie, forse utili a tener distanti gli spiriti maligni, forse letali per cuori vulnerabili. Monika chiuse gli occhi e si tuffò con la totalità del viso nella fragranza, abbandonandosi fra i morbidi petali con estrema delicatezza, come calzasse una seconda pelle di raso rosa. L’armonia indicibile le stava procurando piacere cerebrale, purtroppo venne infranta dal rombo di una vettura in lontananza. La ragazza si ridestò: <<E’ l’occasione propizia per tornare all’ostello prima del crepuscolo>>. Lesta, si riversò sul ciglio della strada ed esibì il pollice. L’auto, una jeep nera di fabbricazione giapponese, accostò.
Il conducente era un signore bruno con la capigliatura folta e una barba bislunga che lo faceva somigliare a Rasputin, il mistico consigliere degli zar Romanov, e mal si conciliava con la giacca e la cravatta. A suggellare lo stile pittoresco contribuivano un paio di mocassini marron, un vistoso orologio e una grossa catena al collo di oro finto. Ad ogni buon conto quell’uomo aveva un’aria familiare, le ricordava uno zio delle steppe siberiane, una persona rude e goffa che si spingeva in città soltanto a Natale portando un sacco di doni e di cibi genuini. Molto religioso senza dubbio, ma digiuno dei riti ortodossi che ammorbavano i fanciulli delle famiglie agiate come la sua, con la dacia, il vasto giardino e accanto una chiesa sfarzosa, il luogo più congruo per l’anima esigente che pasce con la parola del pastore. No, quell’uomo era intriso di una spiritualità anarchica, incolto e balordo finché si vuole ma ricco di generosità contadina, prodigo di consigli pratici per i più giovani. <<Grazie>> esordì briosa Monika sedendosi. Lo <<zio>> aggrottò le folte sopracciglia, i suoi occhi erano privi della bonomia agreste e non cessavano di squadrarla da capo a piedi. Dell’idea che si era fatta permaneva in lui solo un primordiale istinto di lotta per la sussistenza, che trasfigurava la giovane in mercanzia o, piuttosto, in mucca nella stalla. Quando Monika fu costretta ad avanzare leggermente per sistemare lo zaino sul sedile posteriore, l’uomo pose viscidamente lo sguardo sul primo bottone slacciato del vestito. <<Dove scei diretta?>> chiese con un marcato accento bolognese che cancellò definitivamente l’immagine del vecchio zio. Monika sottolineava il distacco mantenendo le braccia conserte, rispose senza guardarlo e, in virtù di un lampo di diffidenza, senza riferirsi al giaciglio notturno: <<All’università>>.
<<Che brava. E cosa fate a quest’ora, un party?… Io sono Giacomo, ma tu puoi chiamarmi Jack>>.

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Malgrado il nome comune e la perfetta pronuncia di Monika, Giacomo sfoggiò una certa perspicacia: <<Allora Monny, che si dice al Nord? Perché non sembri italiana>>.
<<No>>.
L’uomo non si curava delle repliche monosillabiche, era convinto di poter aggirare con facilità le altrui resistenze e tradiva pure una venatura razzista: <<Comunque vieni dall’Est Europa, io non sbaglio mai su queste cose… E dai, durante il viaggio dovremo fare due chiacchiere. Sai, io sono molto conosciuto in paese… Sei appena arrivata?>>. Neanche il cenno di diniego lo persuase a moderare quella specie di interrogatorio: <<E che ci fai qui?>>. Monika era stufa di venire esaminata e oggettificata da un tale che non aveva alcun interesse nei confronti della sua persona.
Le riaffiorarono i tornei di scacchi in Unione sovietica. Adorava i giochi di strategia, anche se le sue grandi passioni erano il nuoto, l’equitazione e il tiro con l’arco, ma alcuni scacchisti erano insopportabili. Avrebbe preferito interagire con individui, se non proprio interessanti, almeno garbati. Quando andava bene si annoiava a morte, nella peggiore delle situazioni le sedevano dirimpetto anziani bavosi o volgari rampolli, cui avrebbe voluto stampare in fronte un alfiere in alabastro. In tal caso moltiplicava l’impegno per conquistare presto la vittoria, conscia di doversi sciroppare lagnose scempiaggini maschiliste, una serie di giustificazioni patetiche che l’uomo forniva dopo essere stato sconfitto da una ragazza, tediose quanto i comizi di partito e le parate militari. Stavolta però Monny non poteva darsela a gambe. Era imprigionata nell’auto di quello <<zio>> per un viaggio che non sarebbe terminato prima di un’ora. Decise dunque di trasmettere l’irritazione scandendo: <<Stu-dio all’uni-ver-si-tà>>.
Arrocco inutile. <<Cosa di bello?>>.
<<Lingue e Letterature straniere>>.
Cominciava ad allarmarsi. Giacomo infatti alternava espressioni banali da corteggiatore petulante a occhiate oblique tipiche di un delinquente. Aveva come l’impressione che nella tasca della giacca color beige, da un momento all’altro, potesse estrarre un coltello. Mentre lei si annebbiava in quei grigi pensieri, l’uomo, grattandosi la barba, domandò: <<Chi ti mantiene?>>.
<<Nessuno>> rispose con raccapriccio.
<<Eh, ne ho viste tante di giovani come te>> continuò lui, nient’affatto scoraggiato. Anzi pareva stimolato, come se non stesse aspettando che una ragazza bella e indipendente per sfogare le proprie frustrazioni. O peggio.
<<C’è chi vuole diventare interprete, chi sogna il cinema… Ma dove finiscono? Le vedi in fila dal regista per un provino e per un invito a cena, disposte a tutto… E poi te le ritrovi a fare le sguattere>>.
Sì, il capro espiatorio femminile non rappresentava una gran novità. Se non sono mogli e madri, alle donne si addicono i ruoli di meretrice e di addetta alle pulizie. Monika batteva il piede per il nervoso: <<Chi non ha bisogno di qualcosa?>>.
<<Io mi sono organizzato bene, e non dipendo da nessuno. Gli affari sono il mio pane, ne fiuto uno anche a mille miglia>>.
<<E ne trova di tarfufi?>>.
Sorpreso dall’ironia della passeggera, Giacomo si fece più scuro. <<Sei simpatica, ma il mondo non va avanti a battute>>.
<<Solo col denaro giusto?>>.
<<Se hai problemi economici non preoccuparti. A tutto c’è una soluzione… Qualora avessi bisogno di assistenza… >> seguitò mettendo la mano all’interno della giacca. Non ne uscì un’arma ma un biglietto da visita di agente finanziario.