“Mafia Capitale” tre anni dopo il caso Emilia. Intervista al Corriere del Ticino

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Sui legami tra mafia e politica il giornalista d’inchiesta Stefano Santachiara aveva indagato nel 2011 in Emilia Romagna scoprendo complicità tra politici locali e crimine organizzato. Gli abbiamo rivolto alcune domande sull’allarmante fenomeno.

In questi giorni si parla molto sui media italiani dell’inchiesta Mafia Capitale. Ebbero la stessa eco le indagini condotte un paio di anni fa in Emilia Romagna, di cui lei aveva riferito ampiamente?

No, malgrado gli ingredienti per un “romanzo criminale” ci fossero tutti: la mafia più ricca per giro d’affari e pericolosa militarmente, la ‘Ndrangheta calabrese, il legame con il Pd sull’Appennino emiliano, cioè nella regione più avanzata socialmente, le lottizzazioni immobiliari nelle mani di cooperative accusate di abusi edilizi, gli appalti milionari di stadi e scuole affidati in project financing a società riconducibili ad un boss della Piana di Gioia Tauro, imputato anche per incendi dolosi, estorsioni e per l’invio di teste di capretto mozzate a imprenditori rivali. Sì, proprio come l’intimidazione con la testa di cavallo resa celebre dal film “Il padrino”. La stampa locale è stata costretta a riprendere gli scoop di allora, nel 2011, poi silenzio tombale; quella nazionale, tranne la trasmissione Report, ha continuato a ignorare la vicenda. Eppure, rispetto alle collusioni mafiose con esponenti del centrodestra democristiano e poi berlusconiano, quella del PD di governo al nord era una novità assoluta.

Alcuni dirigenti locali del PD non uscirono bene da quelle indagini. Il partito come reagì?

La politica ha finto di non capire, minimizzando il fatto che il sindaco di Serramazzoni Luigi Ralenti, di area renziana, incontrasse l’ex soggiornante obbligato Rocco Baglio, già condannato negli anni ’90 per bancarotta e detenzione di mitra, e gli assegnasse importanti opere edili. Le accuse per l’amministratore sono di corruzione e turbativa d’asta, il processo è in corso ma comportamenti simili non sono stati stigmatizzati dalla politica, neppure quando il Comune nel 2012 è stato commissariato dopo nuove indagini sulla nuova Giunta.

Quale difficoltà ha incontrato indagando sulle infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna?

Gli ostacoli sono l’ omertà dettata dalla paura e le carenze di comprensione del fenomeno mafioso, anche da parte di magistrati e colleghi. Quando nel 2011 le indagini della pm di Modena Claudia Natalini hanno scoperchiato il Sacco di Serra non ha potuto contestare l’aggravante dell’articolo 7 perchè la Direzione distrettuale di Bologna, competente in materia, decise di non considerare metodo mafioso quello degli incendi dolosi e l’invio della testa di capretto. In seguito è stata la Direzione nazionale antimafia a legittimare il lavoro della dottoressa chiedendo la sorveglianza speciale per il boss. Purtroppo c’è stato persino chi, come il collega Giovanni Tizian, ha dichiarato che Baglio ormai “si era smarcato” dal mondo malavitoso. Eppure gli esperti di mafia sanno che le cosche, a meno di pentimenti, sono per sempre.

A quando risalgono i primi segnali dell’infiltrazione mafiosa nel nord Italia, e quali elementi le hanno facilitate?

Le infiltrazioni sono state agevolate dall’istituto del soggiorno obbligato, con il quale lo Stato spediva capimafia nel settentrione nell’errata convinzione che lontani dai feudi avrebbero reciso le radici con l’organizzazione criminale. Le motivazioni sono però strutturali, i mafiosi non sono stati sconfitti come i briganti perchè oltre ai traffici d’armi, droga e quant’altro crimine, rappresentano un’ economia sommersa legata a parti del mondo imprenditoriale e istituzionale. Le mafie, la cui presenza è riscontrata già nell’800 durante la spedizione dei Mille di Garibaldi in Sicilia e a Napoli, sono uno strumento d’ordine ideale. Ad esempio i campieri dei latifondi, come i caporali di oggi, furono “Importati” anche negli Stati Uniti perchè ottimi repressori delle rivendicazioni salariali e sociali dei lavoratori

I partiti e le istituzioni si sono muniti degli adeguati antidoti?

Gli strumenti legislativi sono insufficienti, basti pensare all’autoriciclaggio che ha approvato prima di noi la Repubblica di San Marino, alla depenalizzazione del falso in bilancio, alle pene irrisorie per reati-spia come gli incendi, gli abusi edilizi e relativi al traffico di rifiuti. I problemi però sono innanzitutto operativi e culturali: troppi beni confiscati ai boss non vengono assegnati, le ex imprese mafiose chiudono e queste sono sconfitte dello Stato, che in linea generale dovrebbe riappropriarsi del suo ruolo di propulsore nell’economia, anche appunto gestendo direttamente società, banche, immobili. La Regione Toscana di recente ha approvato una norma per assegnare ad alloggi popolari gli immobili sottratti al giogo mafioso: mi pare un’ottima risposta!

Le indagini di Roma secondo lei cosa stanno portando a galla?

E’ la punta di un iceberg di un mondo ramificato e in parte già noto. Vedremo se reggerà l’accusa di mafia contestata agli autoctoni, basata sulla disponibilità di armi del gruppo ruotante attorno al terrorista dei Nar Massimo Carminati e sulla spartizione degli appalti tipica di mafia siciliana, ‘Ndrangheta e camorra. Anche Salvatore Buzzi, fondatore della cooperativa 29 giugno e gestore delle attività economiche di “Mafia Capitale”, era stato condannato per omicidio a 24 anni di carcere ma è stato graziato nel 1994 dal presidente della Repubblica Scalfaro.

(Osvaldo Migotto, caporedattore del Corriere del Ticino)
12 dicembre 2014

Crac di tre coop edili pedemontane: risparmiatori sul lastrico

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Tre cooperative edili fallite, i dirigenti regionali del Pdl Isabella Pini e Alessandro Colliva indagati, compravendite gonfiate e lavori mai eseguiti che stanno gettando sul lastrico decine di piccoli risparmiatori. La Procura di Modena ipotizza il reato di bancarotta fraudolenta per un gruppo di imprenditori e consulenti artefici di operazioni che dal 2005 al 2007 avrebbero provocato default da circa 20 milioni di euro. L’inchiesta della Guardia di Finanza sconta però un ritardo istituzionale sulla dichiarazione d’insolvenza, quello dell’allora Ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola. La disattenzione ‘immobiliare’ stavolta non riguarda la casa con vista Colosseo pagata dal costruttore Diego Anemone all’insaputa del senatore ligure, vicenda per cui a Roma si trovano imputati di finanziamento illecito, ma la nomina di tre commissari delle coop modenesi in liquidazione coatta amministrativa. Scajola, tenendo conto della rosa di candidati dell’ Unci (Unione cooperative di area ‘bianca’ presente nel Cnel), nel maggio 2009 firmò la nomina di una parente, un collega di partito e una socia dei presunti fautori del crac. Un conflitto d’interessi tale da imporre sette mesi dopo l’annullamento del decreto con la scelta di un nuovo commissario e non difficile da cogliere: Casaeffe, Progetto casa e Casa mia erano amministrate dalla Pdl modenese Isabella Pini, già responsabile regionale per le pari opportunità e le emergenze umanitarie, ma soprattutto consigliere dell’Unci, dal 2010 con delega ai rapporti con Governo e Parlamento.
Tra gli indagati figurano anche Laura Ferrari, figlia del direttore finanziario di CoopEstense (big della distribuzione in Legacoop) Vincenzo e il costruttore Pierino Mazzola, nella veste di legali rappresentanti del consorzio “Il Mattone” e di Nyumba srl. Le società comprarono terreni edificabili per rivenderli alle coop a prezzi gonfiati iperbolicamente: ad esempio il 26 gennaio 2007, nel giro di poche ore, il medesimo notaio firmò l’acquisto di un’area di San Cesario a 2 milioni e 500mila euro e la vendita a 5 milioni e 800mila. Ad occuparsi delle scritture contabili delle coop era l’ingegnere bolognese Alessandro Colliva, ex responsabile regionale di Forza Italia per i settori no profit e lavoro, revisore dei conti su incarico dell’Unci e socio della Ge.Co.Consulting che svolse consulenze e ricerche per Casa mia. ‘Il Mattone’, costituito dalle ‘creature’ della Pini e da quattro società vicine, subappaltava i lavori edili e li fatturava raddoppiati alle coop, finanziate in particolare da Unicredit. Secondo gli inquirenti parte dei proventi è stata utilizzata per stipulare 360mila euro di polizze assicurative pagate dal consorzio: nel 2008 sono stati versati premi per 150mila euro intestati alla sola Pini. La dichiarazione d’insolvenza in tribunale arriva però solo nel settembre 2010, richiesta dal Pm Claudia Natalini non appena ricevuta la relazione del nuovo commissario liquidatore, l’avvocato Anna Caterina Miraglia. Un anno e mezzo prima, il Ministro dello Sviluppo Economico Claudio Scajola aveva nominato i tre commissari in conflitto d’interessi: per Casaeffe Daniela Varrini (non indagata), nuora dell’amministratrice, per Progetto casa la presidente del consorzio Laura Ferrari, per Casa mia il superconsulente Alessandro Colliva. Ad alzare il coperchio fu l’esposto dell’ottobre 2009 firmato dall’avvocato Davide Guidi, legale di numerosi soci di Casa mia che avevano anticipato anche fino a 130mila euro per acquistare gli appartamenti, cento unità abitative a Vignola di cui solo una trentina già andati a rogito. La maggioranza, operai e impiegati che avevano dato fondo ai risparmi di famiglia all’atto del preliminare, non sono terminati o comunque restano privi di agibilità. Le anomalie, secondo l’avvocato Guidi, non si sono fermate con la revoca dei commissari. Come recitano gli esposti del legale modenese al Ministero nella primavera 2011, per dare corso alle opere di urbanizzazione necessarie all’abitabilità (fognature, illuminazione) il nuovo commissario “ha scritto in un’istanza al Ministero la disponibilità di soci che non l’avevano concessa”. Inoltre, “una nuova perizia della consulente della Miraglia stabiliva l‘aumento del valore da 1500 euro al mq a 1800 euro senza tener conto del crollo del mercato e degli evidenti vizi e difetti degli immobili emersi nella perizia del consulente del tribunale di Modena”. Le due risposte ufficiali, che minimizzano i fatti, sono state scritte su carta intestata del dipendente del Ministero Mara Pepe, forse un’omonima della Mara Pepe che figura nel comitato di vigilanza. “Una decina di rogiti – dichiara l’avvocato Guidi – sono stati sì stipulati, ma a prezzi ben diversi e molto superiori sia da quelli originariamente pattuiti sia da quelli di mercato e alla condizione ‘visto e piaciuto’. Le famiglie sono state costrette a comprare perchè l’alternativa sarebbe stata finire in coda alla lista dei creditori”.

Link all’articolo del Fatto Quotidiano

Modena, affari opachi e inquinamento dell’area della festa dell’Unità

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Non c’è pace per il Pd. La Procura di Modena ha aperto un’indagine per verificare l’inquinamento di Ponte Alto, frazione che da tre lustri ospita la festa dell’Unità e fino agli anni Settanta fu la sede della Fornace Vigarani. L’area, 182mila metri quadrati alla prima periferia della città, è finita al centro delle polemiche dopo un’interrogazione consiliare del capogruppo Idv Eugenia Rossi sulla variante di edificabilità e l’acquisto, 4 anni fa, di una cordata bipartisan composta da coop rosse e bianche, istituti di credito, costruttori vicini alla destra. L’apertura di un’inchiesta è un atto dovuto in seguito alla denuncia di Emilio Salemme per conto di Lac, Legambiente e Wwf con ipotesi di reato di violazione della legge 152 del 2006 in materia ambientale. L’esposto, consegnato al Corpo forestale dello Stato, è finito sulla scrivania del procuratore capo Vito Zincani che ha aperto un fascicolo a modello 45 scegliendo di occuparsi personalmente del caso, incaricando Arpa di effettuare il carotaggio del terreno. Ora gli agenti della Forestale modenese porteranno in Procura anche la consulenza privata del geologo Franco Gemelli, che già sei anni fa sottolineava la necessità di una bonifica.
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Bper, un ex magistrato ha fatto fallire l’assalto di Samorì

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E’ fallita per la quarta volta la scalata della finanza ‘azzurra’ alla Banca popolare dell’Emilia Romagna, e grazie ad un ex magistrato. Dopo un’assemblea carica di tensione, accuse reciproche e due risse che hanno richiesto l’intervento delle forze dell’ordine, sono naufragate nell’urna le attese dei sostenitori di Gianpiero Samorì, finanziere vicino a Marcello Dell’Utri. La partita infatti non si giocava sulla scontata conferma della lista uno di Piero Ferrari e del board di un istituto che lo sfidante vorrebbe ridisegnare a suon di acquisizioni, tagli al centro sud e ricapitalizzazioni miliardarie. Ma sullo scranno del consigliere riservato da quest’anno alla lista di minoranza, una posizione determinante per lanciare nuovi assalti e condizionare scelte cruciali: il potere del diritto di veto sugli affidamenti alle parti correlate (le società dei consiglieri) è enorme. Samorì ci puntava con forza ma la sua crescita si è fermata a 5mila voti, tremila in meno della lista capeggiata da Manfredi Luongo, già procuratore di Modena e Forlì-Cesena legato alla Popolare irpina e sceso in campo per difendere “le banche del sud”. Ieri l’ex magistrato era assente per un’indisposizione parsa di opportunità dopo le polemiche relative a Domenico Livio Trombone, sindaco revisore di Unipol e firmatario della sua lista. La Consob è stata già investita del sospetto di un patto occulto con la linea Maginot della governance, rinsaldata nell’ultimo triennio dall’entrata di Mario Zucchelli (presidente della holding Holmo che tramite Finsoe controlla Unipol) nel salotto buono dei big dell’alimentare (Cremonini, Fini, Amadori) e della finanza bianca.
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