La matematica della querela fantasma: nulla x nulla costa 10 milioni di vecchie lire

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L’ultima frontiera di Querelopoli è la causa fantasma che si trasforma in esoso dibattimento per un articolo non siglato in cui il querelante non è identificato. Il tutto alla modica cifra, a carico del giornalista privo di tutela legale e di contratto di lavoro dipendente, di 5mila euro di spese forensi, diconsi 10 milioni di vecchie lire. Interessante vero?
Il riassunto delle puntate precedenti lo trovate qui a Querelopoli, vi risparmio dunque la rapida successione di eventi che nel 2011-2012 hanno portato qualche problema al sottoscritto: le due minacce denunciate all’autorità giudiziaria, la chiusura del giornale L’Informazione (per accuse poi rivelatesi infondate, nate da un esposto anonimo che ha portato al blocco dei contributi per l’editoria e dunque alla morte del quotidiano nel gennaio 2012), la causa milionaria ai partecipanti alla puntata di Report sul “Sacco di Serra”, definita “intimidatoria” da Ossigeno, Odg e Fnsi (puntata del dicembre 2011, causa civile nel marzo 2012). Questa e altre querele stanno seguendo il loro iter, no problem: quando ho scelto di fare il giornalista sul serio ero consapevole che avrei pagato dei prezzi. Punto e a capo. Per quale ragione, dunque, l’ultima frontiera merita un racconto volante? Perchè non si parla di fatti da verificare, di danni d’immagine da riscontrare, di presunte lesioni della reputazione, insomma di questioni di merito a cui il giornalista può opporre, come per il momento è accaduto, la veridicità delle notizie, la continenza del linguaggio e la pubblica rilevanza. Anzi, spesso, nelle occasioni in cui sono stato querelato per inchieste pubblicate su L’Informazione dal 2007 e sul Fatto Quotidiano dal luglio 2009, non vi era neppure bisogno di difendersi poichè, come prevede la legge di fronte a palese infondatezza, la magistratura inquirente archiviava. Le rare volte che si è giunti in udienza preliminare, comunque con la tutela legale assicurata dall’editore, la sentenza è stata di non luogo a procedere.
La querela fantasma concerne un articolo del 7 novembre 2010, pubblicato da L’Informazione di Modena, nel quale si narra di un ufficiale dell’Accademia costretto a dormire in caserma dopo il divorzio dalla moglie che vive nell’ex tetto coniugale. L’articolo è di livello mediocre, peraltro inserito in un soppalco del giornale, senza particolare evidenza, uno di quelli che nelle redazioni si sfornano a getto continuo come i comunicati stampa per riempire 40 pagine quotidiane. Il pezzo, che non ricordo di aver scritto, è privo di firma e di sigla. Resta dunque un mistero come sia stata attribuita la paternità. Mi sono sentito rispondere che “sarà il dibattimento a stabilirla” come se non spettasse all’accusa l’onere della prova, in questo caso di trovare uno straccio d’indizio sull’autore della presunta diffamazione per un articolo che – è di immediata evidenza – non identifica minimamente la querelante: la donna (che ha precedenti penali, stando a quanto riferito in via informale a margine dell’udienza preliminare) resta ignota perchè non compaiono il nome, le iniziali, l’età, la residenza, la professione di lei e nessun elemento anche in relazione al marito graduato.
La querela, che in sede penale deve essere presentata entro 90 giorni e dunque era già stata depositata a fine 2010, langue per quasi tre anni nel cassetto della Procura di Cremona, provincia nella quale veniva stampato L’Informazione. Ad un certo punto, nell’estate del 2013, il sostituto procuratore la rende nota ai querelati, l’ufficiale dell’Accademia e il sottoscritto accusati di diffamazione a mezzo stampa, il direttore responsabile di omesso controllo. Coincidenza: apprendiamo della querela ricevendo l’avviso di garanzia assieme alla notifica dell’atto di chiusura delle indagini, nel luglio del 2013, quando L’Informazione è appena stata dichiarata fallita. Ergo: nessuna tutela legale. Nell’udienza preliminare del maggio 2014 il gup, nel giro di pochi minuti, non accorgendosi come il viceprocuratore onorario dell’assenza della sigla nell’articolo incriminato, né tantomeno scorrendo le poche righe per comprendere l’assoluta non identificabilità della querelante e dell’ex marito, rinvia tutti a giudizio. Il solerte avvocato cremonese assegnatomi d’ufficio, che prima dell’udienza preliminare non avevo avuto il piacere d’incontrare, presenta un preventivo per il dibattimento da 4mila euro più Iva e più le spese. Resta da capire come sia possibile applicare un tariffario “nella media” per un processo che lo vedrebbe impegnato a sbadigliare nel ripetere semplicemente:”L’articolo non è del mio assistito, in subordine, chiunque l’avesse scritto, non identifica nessuno”. Un collega precario che era rimasto privo di tutela dell’editore, mi ha riferito di aver speso 1000 euro per un dibattimento per diffamazione, vero, con tanto di produzione di documenti e testimoni. In questo caso, invece, voliamo oltre i 5mila euro chiesti dall’avvocato d’ufficio. L’obiezione di alcuni colleghi (vedi sempre Querelopoli) che beneficiano giustamente della tutela legale, è quella che ci sono tutti gli strumenti per avere giustizia. A parte il fatto che intanto devi pagare una cifra spropositata, una volta ottenuta la scontata assoluzione la strada di intentare causa per lite temeraria recuperando una parte dei soldi è impervia e poco battuta. Il risarcimento arriverebbe dopo molti anni e comunque previo nuovo versamento esoso al proprio avvocato: molto spesso, anche accogliendo un’istanza di risarcimento, il giudice civile compensa le spese legali, fifty – fifty. Dunque, a prescindere dalle manine occulte che possono aver sospinto questa indecenza, che certamente non cambierà di una virgola il mio modo di fare giornalista e di scrivere libri, è interessante valutare come talvolta per magia la giustizia diventi una scienza esatta: nulla moltiplicato per nulla uguale a 10 milioni.

Querelopoli, il silenzio regna sovrano

8 commenti

Stefano Santachiara, giornalista d’inchiesta

Non è retorica sostenere che la legislazione in materia di diffamazione sia un palliativo ai colpi inferti alla libertà di stampa. Il problema è connesso alla generale mancanza di volontà politica (e delle lobby di riferimento) di far funzionare la Giustizia, dunque di invertire la ratio di norme che producono il sovraccarico dei tribunali (l’editoriale di Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera). Qui intendo occuparmi degli effetti devastanti che cause penali e civili possono avere sui giornalisti e sulla capitis deminùtio dei lettori, privati di notizie e inchieste di interesse pubblico. Il disegno di legge degli onorevoli Enrico Costa (Pdl) e Walter Verini (Pd), approvato il 2 agosto 2013 dalla Commissione Giustizia e tra pochi giorni in discussione alla Camera, vieta il carcere per i reati di ingiuria e diffamazione a mezzo stampa lasciando la competenza al giudice monocratico. Contemporaneamente però inasprisce le sanzioni pecuniarie: oggi l’articolo 595 del codice penale prevede in caso di condanna una reclusione da 6 mesi a 3 anni o in alternativa una multa non inferiore a 516 euro. La nuova norma introduce una pena pecuniaria sino a 10mila euro, che sale nelle forbice da 20 a 60mila euro se il reato è aggravato dalla consapevolezza dell’atto diffamatorio. Si tratta di una spada di Damocle sui bilanci delle piccole testate in evidente contrasto con la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che da tempo stigmatizza le sanzioni pecuniarie sproporzionate. Per quanto attiene all’informazione sul Web, ultimamente al centro dell’attenzione politica, è stata resa obbligatoria la rettifica per le testate registrate in tribunale, in termini decisamente tranchant per una materia così complessa: entro due giorni, senza commento, a prescindere dalla veridicità delle replica del presunto offeso  (la riflessione di Bruno Saetta sul sito Valigiablu). E pensare che la correzione, se declinata negli interessi di ambo le parti, potrebbe essere lo strumento per ridurre i contenziosi. Ad esempio, il legislatore potrebbe prevedere che la rettifica da parte del cronista, in caso di errore in buonafede, estingua la causa in partenza.
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