Carolina Morace, intervista esclusiva

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Carolina Morace. Avvocato, pioniera del calcio femminile, bomber e allenatrice, opinionista, Fifa’s Legend, Fifa e Uefa Instructor. Sempre per la FIFA impegnata in Papua Nuova Guinea e in Iran. Prima donna nel 2015 ad entrare nella Hall of Fame istituita dalla Fgci e dalla Fondazione museo del calcio quattro anni prima. Scendendo in campo per un’intervista, mi tremano le gambe… ci provo.

1) Morace centravanti. Esordio a 11 anni a Venezia, tre anni dopo già in Nazionale, un’avventura durata un ventennio e 105 gol, con la quaterna di Wembley nel ’90 che resiste come record assoluto fra uomini e donne; due volte finalista agli Europei, dodici scudetti e 13 volte capocannoniere. Qual è stata la più grande emozione sul campo?

Sicuramente i 4 goals a Wembley. Credo che per ogni individuo che ami il calcio, Wembley rappresenti il Tempio di questo sport. Ed il mio allenatore me l’aveva detto: “Se segni qui puoi dire di essere una giocatrice di calcio”.

2) Che differenze riscontra a livello di gioco fra le squadre femminili di allora e di oggi?

Oggi tatticamente le squadre sono più preparate, noi marcavamo a zona mista con il libero comunque staccato, mai in linea. Era la zona mista di Sacchi con Baresi posizionato sempre qualche metro dietro alla linea difensiva… Adesso giocano tutti a zona poi, in base alle capacità del tecnico, puoi anche vedere un gioco organizzato, i sistemi di gioco sono ben definiti.Tecnicamente eravamo molto forti, certo oggi la velocità è maggiore. Però non è un caso che la mia generazione sia arrivata ad essere per due volte vice campione d’Europa. C’erano giocatrici straordinarie come Vignotto, Ferraguzzi, Bonato, Ciardi, Marsiletti. Tante altre forti, dovrei citarle tutte. Ma non c’era la televisione, anche i dirigenti sono colpevoli perchè venivano a vederci raramente. Sono sicura che avremmo entusiasmato la gente.

3) Solo dal 2015 alcune società professionistiche investono nel calcio femminile, ma le atlete restano ancora senza salario minimo, assistenza sanitaria, contributi previdenziali, Tfr, maternità e ferie pagate. Quali passi concreti occorrono per raggiungere la parità?

Quando si parla di parità bisogna essere chiari. Qui non si invoca la parità salariale. I calciatori generano un business che, forse, un giorno raggiungeremo anche noi. Ma ora siamo solo all’inizio del nostro percorso. Tutto ciò che hai menzionato deve essere la priorità perché è impossibile dare il massimo se non si hanno le minime garanzie sul proprio futuro. Cosa accadrà quando le atlete smetteranno di giocare ed entreranno nel mondo del lavoro con un ritardo di almeno 15 anni rispetto i loro coetanei? E molte atlete decidono di non proseguire gli studi.

4) Nel suo libro, La prima punta (People editore, 2019), racconta come le venne spontaneo giocare a calcio nella struttura della Marina Militare (per via del padre ufficiale) dove c’erano attrezzature sportive.

E’ naturale che in presenza di strutture sportive i bambini siano liberi di sperimentare e scegliere lo sport preferito senza essere condizionati dai genitori. Che di solito, inevitabilmente, scelgono per i figli lo sport da praticare.

5) Il sistema non destina risorse adeguate nei settori giovanili e nelle categorie inferiori del calcio femminile poiché considera insufficiente il ritorno economico in termini di immagine e pubblicità. Come superare questa barriera anche culturale?

Scegliendo le giuste persone nei posti chiave. Non è un caso che il progetto di sviluppo del calcio femminile sia stato fatto da un manager cinquantenne, Michele Uva, quando era direttore generale della Federazione (dal 2009 al 2018 nda).

6) Passiamo a Morace tecnico: prima donna al mondo ad allenare una squadra maschile, la Viterbese in C1 nel 1999. Come andarono le cose?

Dopo la partita persa fuori casa con il Crotone per 5 a 3 (con 3 calci di rigore contro) mi chiamò Gaucci dicendo che voleva licenziare il mio preparatore fisico, il professor Luigi Perrone. Io gli risposi che se avesse mandato via lui avrebbe dovuto mandare via anche me. Gaucci mi disse ‘no, lei non la mando via’ ed allora io gli dissi che mi sarei dimessa. La stima era reciproca. Mi fece poi chiamare da tutti ma un’interferenza del genere, quando capita una volta, capiterà anche la seconda volta. Tanti allenatori accettano, io no.

7) Alla guida della Nazionale italiana nel 2004 conquistò il quarto posto nella Algarve Cup, dopo aver battuto Cina e Finlandia. La Federazione, all’epoca, aveva intenzione di investire nel progetto?

No.

8) Da ct del Canada, con staff tutto italiano, conquistò la Concacaf Women’s Gold Cup nel 2010, poi è stata allenatrice e direttrice tecnica di Trinidad e Tobago. Le sostanziali differenze tra questi paesi e il nostro come organizzazione e come impatto sul pubblico?

In Canada il calcio femminile è lo sport più popolare, in Italia siamo ancora indietro ma sulla buona strada se la Figc continuerà a credere in questo sport. A Trinidad & Tobago sono in via di sviluppo ed hanno molti problemi organizzativi in genere.

9) Perché le calciatrici Usa sono le più preparate atleticamente del mondo?

Il bacino in cui scegliere è molto ampio, crescono da generazioni a generazioni facendo sport. Sarà in grado di battere le americane una squadra che reggerà il loro passo, con l’aiuto dell’organizzazione di gioco: si può fare. In questo Mondiale ho visto qualcosa tatticamente solo dalla nazionale olandese e da quella italiana.

10) Alla vigilia indicò come sorpresa del torneo proprio l’Olanda, poi arrivata in finale attraverso un gioco veloce e divertente. Il loro campionato esiste solo da 12 anni, sono semiprofessioniste da poco, l’attenzione mediatica è scarsa e gli stadi semivuoti. Qual è il loro segreto?

La cultura. Ogni paese ha la sua cultura.

11) Cosa pensa dell’insegnamento del futsal nelle scuole calcio come fanno in Sudamerica?

Se troviamo nelle nostre scuole uno spazio da adibire a futsal perchè no? Ma non credo ci siano molti spazi nelle scuole italiane. E’ giusto che lo sport in Italia sia demandato alle squadre dilettantistiche, che perciò dovrebbero essere sostenute maggiormente dal governo soprattutto con la formula degli sgravi fiscali. E mi riferisco alle sponsorizzazioni, unica fonte di sostentamento per queste società.

12) Trent’anni fa a Roma lei fondò una scuola di calcio mista. Oggi è finalmente una prassi diffusa – da alcune ricerche ho scoperto che in alcune realtà, come Parma e nel Bresciano, le prime squadre interamente femminili, a 12 anni, hanno battuto i coetanei maschi. Fino a che età pensa sia utile giocare contro i ragazzi in campionato e quando invece incontrarli solo in amichevole?

Io non sono nemmeno per le amichevoli. Se una squadra professionistica contrappone alle donne dei quattordicenni, fisicamente rimangono leggermente più forti, magari meno coordinati ma il loro è un calcio da ragazzi, non da adulti. Il calcio delle donne è un calcio da adulti. Il misto va bene dall’età infantile fino alla pubertà.

13) Il maschilismo ambientale oggigiorno è diminuito? Ricordo un suo gol spettacolare da trenta metri: lo definirono casuale, eppure, se fosse stato Maradona…

In Italia ci sono tante persone intelligenti e di media cultura ma anche molti ignoranti. E l’ignoranza qui è un vanto, non una vergogna. Io da tanto tempo non mi interesso più dell’opinione delle persone che non stimo. Poi, avendo vissuto all’estero, vedo sempre più il nostro paese come una piccola parte di un universo ben più grande.

14) Il talento va riconosciuto e coltivato. Esiste oggi fra le donne, in termini assoluti, un genio alla Messi o forse è nascosto in qualche campetto di periferia?

No, non c’è attualmente una Messi ma tante brave giocatrici.

15) La ct Bertolini ha sostenuto che il “calcio di Guardiola è femmina”, perché le atlete sono più propense al possesso palla, al fraseggio e al gioco corto. Parlando di tattica il femminile semiprofessionistico non esisteva ai tempi delle squadre maschili che hanno fatto la storia: la grande Honved, l’Olanda di Michels, il Milan di Sacchi o il calcio utilitaristico di Herrara e Trapattoni. Quale sistema di gioco preferisce e quale pensa sia più adatto al calcio femminile?

Non c’è un sistema più adatto al calcio femminile, valuto quello che è più adatto alle qualità delle mie giocatrici, dei miei giocatori. Per questo motivo noi allenatori non dovremmo avere un sistema preferito.
(intervista realizzata il 31 gennaio 2020)

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Patrizia Caccamo, la pittrice del gol

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Premiata

In vista della pubblicazione del mio primo libro sul calcio femminile anticipo la storia di Patrizia Caccamo, che sabato scende in campo per l’esordio con il Deportivo a Palma di Maiorca. I suoi tabellini sono da record, ma i duecentosei gol e gli innumerevoli assist dipinti in vent’anni fra serie A e B, non ne tratteggiano appieno il talento e il percorso extra-ordinario.

Vive il periodo d’oro della Fiorentina dei Della Valle, apripista dei club che investono nel calcio femminile, durante il quale si aggiudica lo scudetto, due coppe Italia e la Supercoppa. Gioca otto partite in Nazionale, l’ItalViola del commissario tecnico Antonio Cabrini che si qualifica agli Europei dei Paesi Bassi e getta le basi per il successivo exploit mediatico delle azzurre ai Mondiali. Gli addetti ai lavori e gli spettatori beneficiano delle splendide giocate di Patrizia,  un esterno offensivo che parte a sinistra e dialoga con le compagne, ama sterzare verso la porta e scoccare conclusioni a giro con ambedue i piedi. Il dribbling secco, arricchito da un possesso palla funambolico, e la potente velocità inducono non pochi tifosi a invocarla nell’altra metà del calcio, in luogo degli attaccanti viola.

Se Alex Del Piero, rientrando dalla fascia, pennellava nel sette come Pinturicchio, restando nelle arti figurative Patrizia Caccamo rimanda all’espressionismo. E’ tutta la vita di questa ragazza a rappresentare un inno alla fantasia, un vortice che tocca profondità arcane, assumendo i contorni metasportivi di un viaggio ai confini della realtà.
germania

Patrizia Caccamo nasce nel 1984 a Wickede, nel nord della Renania, dove i nonni e i genitori siciliani sono emigrati per lavorare in fabbrica. La famiglia favorisce l’emergere della sua vocazione, e poi la sostiene unitamente: “Da bambina ero spesso nervosa, così il pediatra disse ai miei di farmi praticare sport per scaricare la tensione. Giocavo sempre con il pallone in casa, ovunque, allora papà mi iscrisse alla scuola calcio. Avevo solo sei anni. Mi ricordo la prima partita: facevo i castelli di sabbia con un compagno, ma da quel giorno la mia vita è cambiata”. Che stia accadendo qualcosa di grande si percepisce subito. Patty gioca nel campionato maschile coi coetanei tedeschi, è l’unica femmina e si destreggia ottimamente: a 8 anni è la capocannoniere del torneo. Una volta alla settimana va a lezione di italiano, continua nel misto fino a tredici anni, quando si misura con due campionati diversi: sabato quello maschile, domenica le partite con le ragazze. Dalle giovanili in Germania alla Serie A italiana il passo è lungo quanto il ritorno nel suolo patrio. “Nel maggio del 2000 ero andata in vacanza in Sicilia dai nonni, un cugino mi fece fare un provino col Gravina. Mi presero subito, senza esitazioni, anche perchè io non volevo trasferirmi. Mamma utilizzò le sue vacanze per riportarmi in agosto e consentirmi di andare in ritiro con la squadra. Lei poi salì in Germania a lavorare lasciandomi coi nonni… Ma nel giro di due mesi i miei genitori ci raggiunsero: da sempre avevano l’obbiettivo di tornare in Sicilia. Si conobbero in Germania, anche se a Paternò stavano a sei traverse di distanza”. Il fato. “Io credo nel destino”.

Patrizia Caccamo a sedici anni esordisce nella massima serie. La squadra non è attrezzata per traguardi ambiziosi, lotta con le unghie e con i denti per restare in serie A, ma Patty si distingue subito. Col pallone fra i piedi disegna arabeschi e vede subito la porta. Dopo tre partite è già in Nazionale Under 18: alla prima amichevole indossa una maglia pesante, il numero 10. “Gravina è la mia famiglia, dove i grandi si prendevano cura dei piccoli. Il presidente non mi diceva mai brava per paura che mi montassi la testa. Bellissimi momenti… Rifiutai la proposta della Torres perché volevo stare in squadre in cui eravamo amici”. Il calcio come momento ludico collettivo che unisce, quella è la dimensione fondamentale. “In Sicilia si gioca ancora per strada, nei piazzali, davanti a casa, usando il garage come porta. La gente si lamenta, ogni volta che tiri si sente un boato”.

Le ragazze del Gravina, quasi tutte della provincia di Catania, sono affiatate in partita perché si aiutano nella vita, si ospitano a vicenda proprio come una famiglia allargata. E su quel campetto ai piedi dell’Etna non mancano le giocate pirotecniche. Caccamo ne ricorda una particolare: “Mi lanciano, io parto e vado in contrasto con un armadio, siamo Davide contro Golia: tutte e due cadiamo a terra, alzo la testa e vedo la palla che carambola in area. Il portiere esce, io da terra inizio a camminare a palmo della mano in giù e coi piedi avanzo… fintanto che non tocco la palla di punta anticipando il portiere. Un gol che mi è costato una tendinite acuta del tibiale”. I più gravi infortuni nella carriera di Patrizia saranno la rottura dell’alluce e uno strappo dell’inserzione del quadricipite. Lei matura una teoria per prevenirli: “Non fare stretching prima di allenamenti duri e partite. Il muscolo non deve rilassarsi, al contrario va caricato prima della gara. Ognuno è libero di fare quello che vuole ma per la mia esperienza garantisco che se eviti lo stretching non ti rompi cadendo male”.

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A Gravina si susseguono sei stagioni tormentate e fantastiche: la felicità per le salvezze è più forte delle amare quanto inevitabili retrocessioni, però mancano le risorse, le calciatrici debbono affrontare scomode trasferte e intanto sono costrette a lavorare per guadagnarsi da vivere, come tutte le colleghe nelle società dilettantistiche. Caccamo, ancora giovanissima, trova un posto in un bar per raccattare qualche soldo per l’estate, ma le compagne più grandi “dopo aver lavorato tutto il santo giorno staccavano e… venivano al campo”. Non tutti gli uomini le vedono di buon occhio. Nell’isola del delitto d’onore e del matrimonio riparatore, cancellati legislativamente neanche vent”anni prima, per molti le donne devono restare imprigionate nei ruoli di mogli casalinghe e figlie castigate, sotto lo sguardo proprietario di mariti e padri. Per essere considerata una “svergognata” da un uomo di Neanderthal basta una gonna sotto al ginocchio, figurarsi maglietta e calzoncini. Patrizia supera in scioltezza il problema culturale: “Laggiù la donna che gioca viene sottovalutata, in generale anche in Italia. Io chiedevo sempre di entrare durante le partite dei ragazzi nei quartieri, loro non volevano… Finché non mi vedevano giocare e allora mi accoglievano”.
Il presidente del Gravina vaga in lungo e in largo ma non trova sponsor, s’impegna per un gruppo mai domo fino al tracollo economico: la squadra deve trasferirsi a Paternò, infine si dissolve a causa del fallimento della società. “Lo venni a sapere durante un torneo estivo in Puglia. Me lo disse Graziella Ricci, una cara amica con cui giocavamo in spiaggia ogni anno. Lei è la presidente della squadra femminile di Torre Pedrera, nel Riminese. Dispiaciuta mi mostrò i fogli della federazione: “Guarda qui, il Gravina non è iscritta ad alcun campionato”. Eravamo incredule. Da una parte mi piangeva il cuore, dall’altra pensai che potevo andare dove volevo perché da quel momento il cartellino era mio. Iniziarono a chiamare le società, anche grandi, ma io scelsi il Torre Pedrera. Tra lavoro e campo ero felicissima, con Graziella non ci siamo mai lasciate, continua a venire a giocare con me d’estate. E’ la mia seconda madre”. Ricci è una delle pioniere del calcio femminile, lavora con perseveranza con le giovanissime e costruisce un gruppo solido che conquista la serie B. Nel divertimentificio di Rimini, con le discoteche e le notti brave, Patrizia non cede alle distrazioni e si allena duramente. In principio trova impiego in un bar, poi in un negozio di abbigliamento.

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Dopo un solo anno passa al Ravenna, perché ora la sua volontà è di sperimentare: “Desideravo fare diverse esperienze. Infatti scesi di nuovo in Sicilia con l’Acese, un’altra società che gestiva tutto con sacrifici”. Il comune di Sant’Antonio reca il prefisso Aci in ossequio alla leggenda greca dell’omonimo pastorello ucciso da Polifemo. Il ciclope s’invaghì di Galatea ma non accettò il rifiuto, gettando per vendetta un masso di lava sul suo amato Aci. La ninfa versò lacrime sul corpo inerme e gli dèi trasformarono il sangue del pastore in un piccolo fiume. Patrizia Caccamo è il punto di riferimento per l’Acese, reincontra una tifoseria calda, una folla accogliente come quella che i pittori rinascimentali disegnano per Galatea in trionfo, sopra un conchiglia trainata da delfini. Sono tre stagioni ricche di soddisfazioni e marcature, finché la bomber che parte dalla fascia decide di stabilirsi al centro: un campionato a Sezze, la città laziale che si vuole fondata da Ercole, e una a Napoli, sempre sulla scia del mito greco. Il feeling non scatta, appena cinque reti per ciascuno, sicché Patrizia incede oltre, senza tema, nel labirinto itinerante che la riporta al punto di partenza, dove rinverdisce gol e sorriso: Aci e Romagna, stavolta in serie A nel Riviera, squadra di Cervia. Benchè siano trascorsi tre lustri, il sapore delle vittorie nella massima serie è lo stesso.

 

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Patrizia Caccamo approda sulle rive dell’Arno nel 2015, proprio l’anno in cui i Della Valle acquiscono il titolo del Firenze, società dilettantistica di calcio femminile fondata 36 anni prima. Le viola diventano la prima squadra italiana di un club maschile e finalmente si avvalgono di un importante staff tecnico, di strutture e comunicazione.
Il dirigente Sandro Mencucci, già protagonista della traversata nel deserto della Fiorentina maschile, salvata dai Della Valle dopo il crac e ripartita dalla C2, giura di “scrivere la Storia del calcio femminile”. Patty invero non ci sta pensando: “Avevo appena trovato un buon lavoro, potevo entrare in azienda con il contratto a tempo indeterminato. Ma poi mi chiamò Sauro Fattori“. E’ il tecnico che allena già da tre anni le ragazze della società dilettantistica Firenze. Da attaccante Fattori ebbe l’umiltà di esordire con Antognoni e di passare il resto dei suoi campionati in B e C, cambiando casacca una dozzina di volte, praticamente ogni stagione. Adesso crede fermamente nel progetto. Con lui tanti professionisti, donne e uomini, dentro e fuori dal campo. La bomber della Nazionale Patrizia Panico, a quarant’anni, rinuncia a disputare la Champions League col Verona allo scopo di abbattere tutti i pregiudizi sulle calciatrici. A Firenze, hic et nunc, nasce il semi-professionismo.
La forza delle gigliate è ancora in nuce, il primo anno la squadra comincia a macinare gioco ma il progetto necessita di tempo per dispiegarsi. Le giglate si piazzano al terzo posto dietro il super Brescia di Milena Bertolini. Caccamo viene insignita della pergamena dedicata alla migliore giocatrice della rosa. “All’inizio non riuscivo ad esprimermi, ma poi grazie alla fiducia del mister tutto venne da sè. Scudetto, Nazionale, Coppa e Supercoppa. Un’emozione indescrivibile…”.
Il titolo giunge al secondo tentativo, al termine di un’appassionante testa a testa con le leonesse, culmine di una cavalcata durata quindici vittorie consecutive, ventuno su ventidue totali. Per la sfida decisiva contro il Tagnavacco, il 6 maggio 2017 allo stadio Franchi, accorrono circa ottomila persone. E’ un evento di partecipazione per il calcio femminile, secondo solo alla semifinale di Champions League raggiunta dal Bardolino nove anni prima, quando al Bentegodi Patrizia Panico e le scaligere sfidarono il Frankfurt davanti a quasi quattordicimila spettatori. Caccamo segna il gol che sblocca il risultato: “Ilaria Mauro libera Alia Guagni che si invola sulla fascia, crossa rasoterra, io brucio l’avversario e la piazzo nell’angolo”. Un’altra pennellata l’anno seguente bacia la finale di Coppa Italia contro il Brescia, vinta per 3-1 sul campo di Noceto: “Tatiana Bonetti batte un calcio d’angolo, un difensore allontana di testa nella mia zona, io colpisco al volo di collo esterno e gonfio la rete sotto la traversa”.

 

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Il numero sulla maglia non tragga in inganno. Che sia il 7, il 9, o in seguito il 19, numero legato al nonno e indossato dopo la sua morte, Caccamo resta la dominatrice della fascia e una goleador di razza. Dal battesimo nelle azzurrine non ha più portato il 10. I cronisti però la paragonano a Roberto Baggio per la velocità palla al piede e a Francesco Totti per la potenza.  Patrizia, nome che evoca i nobili discendenti di Romolo,  ha una predilezione per il re della capitale. Quando sente nominare er Pupone, espande il sorriso come una farfalla: “Lo conobbi su iniziativa di una mia amica, che mi fece una sorpresa. Sapeva che la Roma alloggiava in un albergo vicino e con un pretesto mi ci portò. L’incontro con Totti fu un regalo bellissimo”. Non ama i confronti col calcio maschile: “Una donna non può competere come forza e velocità con un atleta uomo. Come tecnica, invece, sì”. Soprattutto, non essendo professionista, è costretta a sacrifici maggiori, senza salari adeguati e tutele. “A Firenze non lavoravo, ero calciatrice a tempo pieno. Sostenevo sei, sette allenamenti a settimana. La vita privata, pian piano, era diventata zero”. Comunque la passione per il calcio vinceva su tutto: “Senza non so stare. La mia vacanza ideale è nel Salento: la mattina mare, la sera torneo Futsal”.
Alla fine della stagione 2017-2018, anziché scendere in ferie, Patty trasvola insieme al portiere Noemi Fedele negli Stati Uniti. L’Osa Seattle, presieduta dall’italiano Giuseppe Pezzano, disputa la Women’s Premier Soccer League, un campionato estivo di secondo livello cui però partecipano anche le iridate Alex Morgan e Abby Wambach. Pezzano si interessa al calcio delle donne grazie alla centrocampista del Fiammamonza Alessandra Nencioni (ora in forza al Napoli), lancia la squadra femminile e diventa partner della Fiorentina, che invia tecnici per la formazione dei giovanissimi, nonché Alia Guagni, Valentina Giacinti, Francesca Vitale, Martina Capelli, Deborah Salvatori Rinaldi. Caccamo resta affascinata dall’organizzazione del soccer femminile più avanzato del pianeta: “E’ stata un’esperienza bellissima in tutto e per tutto. L’host family, i campi in sintetico e coperti, l’annesso centro di riabilitazione. Nell’immensa struttura di Seattle, giustamente, era vietato bere alcol e fumare. Eravamo quarantacinque giocatrici, quasi tutte del college, molte facevano gli stage. Venivano osservatori da tutta America e dal Canada, ragazze e ragazzi selezionati ricevevano borse di studio. Tecnicamente non sono molto forti, ma la loro fisicità è impressionante. Seguono un corso a parte per la preparazione contro gli infortuni. Un fatto mi colpì: un’avversaria era incinta di cinque mesi eppure giocava…”.

 

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Alla ripresa in Italia Patrizia assaggia per la prima volta il freddo della panchina. Il nuovo allenatore Antonio Cincotta scommette sull’attaccante del Tagnavacco e della nazionale scozzese Lana Clelland, classe 1993. Sessantasei presenze e quarantuno gol in tre anni, sintonia invidiabile con le compagne che esibiscono un giuoco rapido e spettacolare: per Caccamo è tutto finito. “Sono andata via perché il feeling con Cincotta non è mai nato. A malincuore, fra le lacrime, ho dovuto abbandonare Firenze per mia scelta”. Come Galatea per la fine di Aci, Patrizia lascia un fiume di ricordi alla sua Firenze e s’inoltra nelle nebbie padane firmando con l’Atalanta Mozzanica. Purtroppo la presidente bergamasca Ilaria Sarsilli naviga in cattive acqua a causa della scelta del club maschile di cessare la collaborazione con il femminile. A fine stagione l’Atalanta dichiara lo scioglimento lasciando a piedi Patrizia, che ha ancora negli occhi il passato prossimo gigliato. Osserva i cambiamenti in corso nella Fiorentina, acquistata da Rocco Commisso, e critica la scelta di lasciar fuori Sandro Mencucci, fra i dirigenti più impegnati per il movimento femminile: “Presi le difese di Mencucci perché se lo meritava pienamente. Nessuno aveva preso posizione ma io dico ciò che penso e lo farò sempre senza paura”.
Patty Caccamo ha 35 anni, le recenti delusioni la inducono a riflettere sull’eventualità di attaccare il pennello al chiodo. Il suo, adesso, è un urlo di Munch sullo sfondo di un vulcano in eruzione? No, la bambina che tirava pallonate di gioia fra i castelli di sabbia e nel sette dei garage, non smette di giocare neppure fra i lapilli dell’esistenza. Milita in serie B nel Vittorio Veneto e nell’estate 2019 vince lo scudetto di beach soccer con il San Benedetto del Tronto. “Anche gli uomini della Sambenedettese hanno vinto e noi abbiamo fatto il tifo, viceversa loro sono stati i nostri supporter. E’ il mio primo anno di beach soccer, nel gruppo ero la motivatrice, facevo scaricare la tensione”. Ormai peró Patrizia è stanca di com’è diventato il campionato italiano, per cui rifiuta l’offerta del Perugia e saluta il Belpaese. Torna in mezzo al mar Mediterraneo, in un’altra isola inebriata da antichi profumi, fondata nel secondo secolo avanti Cristo dal console romano Quinto Cecilio Metello. Al sorgere del 2020 è a Palma de Maiorca per vestire la maglia nel Deportivo Collerense, seconda divisione spagnola. Seduta accanto in aereo ritrova l’amica Noemi Fedele, che saluta le compagne viola senza polemiche, al pari della team manager Tamara Gomboli. “Firenze lo sai, non è servita a cambiarla” cantava la poesia di Ivan Graziani. Narrava l’addio di una giovane pittrice: “Gettò i suoi disegni con rabbia giù da Ponte Vecchio: Io sono nata da una conchiglia diceva. La mia casa è il mare e con un fiume no, non la posso cambiare“.
Caccamo non sceglie il gioiello naturale delle isole Baleari come buen retiro, ma per ricominciare: “In Italia si sta puntando solo sulle straniere. Qui siamo professioniste, abbiamo il contratto di lavoro. Cerco sempre di migliorarmi nonostante l’età”. Il futuro? “Lo vedo sempre nel mondo del calcio. Mi piacerebbe fare il talent scout oppure il personal trainer sul campo, come sto già facendo. E tornare a casa, in Sicilia”. Forse sul candore sabbioso e l’iridescenza marina Patrizia non cavalca come Galatea una conchiglia trainata da delfini, ma dipingerà sempre meravigliose traiettorie.

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Calcio femminile, sorelle d’Italia

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Nazionale“Il calcio non è per signorine”. Alla frase attribuita al mediano della Pro Vercelli Guido Ara, risalente al 1909, in oltre un secolo, se ne sono aggiunte una montagna. “La donna non capisce niente di pallone”. “Le giocatrici sono brutte, scarse e mascoline”. “La lobby lesbica comanda il calcio femminile”. Quante volte abbiamo sentito tale miscela di irrazionalità, sessismo e volgarità? I soggetti in questione, affetti da misoginia più o meno consapevole, sono certamente una minoranza della galassia maschile ma possono contare sull’approvazione implicita e silenziosa di un numero considerevole di persone. Il cittadino medio accetta che le donne pratichino discipline come il tennis, il nuoto e l’atletica, già fatica di più a tollerare sport di gruppo come il volley, il basket o la pallamano femminile. Il calcio no, quello proprio non passa. Eppure l’unico limite di questo sport, che come ogni cosa umana vale sia per le donne sia per gli uomini, è lo sviluppo della sola muscolatura delle gambe, fattore aggravato dal fatto che le società dilettantistiche mediamente trascurano la preparazione fisica di base. Gli elementi positivi sono invece molteplici, perché il calcio rafforza lo spirito di gruppo, abitua al confronto e alla sconfitta, educa al rispetto delle regole e alla lealtà verso i rivali, sviluppa la logica, l’orientamento e l’estro. I più ottusi, coloro i quali si sentono i depositari della sacra fiamma dello sport, sono convinti che le femmine siano fisicamente fragili a prescindere dalla preparazione atletica, e psicologicamente instabili, pronte a scoppiare in lacrime al primo pestone. Ovviamente anche il rugby femminile, parente del football finché i giocatori prendevano la palla con le mani, equivale ad una bestemmia.
I contrasti di gioco calcistici, anche i tackle più duri, non presentano controindicazioni come quelli del rugby, dove il regolamento è stato rivisto per entrambi i sessi con l’introduzione del fallo di “unnecessary roughness”, al fine di ridurre le commozioni cerebrali. E poi per quale motivo essi considerano normale il pugilato e la “lotta nel fango” femminile, oggettivamente violenti? Questa specifica idiosincrasia nei confronti delle calciatrici non ha alcun senso, sì ben afferisce ad un timore atavico di perdita del comando, fors’anche del telecomando. Se due donne si rotolano come scimmie a suon di pugni e calci, lorsignori non avvertono alcun rischio per il genere maschile, tutt’al più cercano una forma di sollazzo voyeristico, il medesimo che i media forniscono agghindando “veline” negli studi televisivi e propalando degradanti photogallery dove il “lato B” delle campionesse ne occulta le performance sportive.
Su un piano diverso, che però attinge al medesimo pregiudizio di fondo, ci sono le obiezioni di tipo tecnico. In tale ambito, la sciocchezza che circola sulle donne che non hanno il fisico per giocare viene sostituita da severi giudizi di addetti ai lavori, secondo i quali “le femmine non riescono a reggere 90 minuti su campi grandi come quelli maschili” e “non sono in grado di arbitrare le partite degli uomini”. Di recente un telecronista, a pochi minuti dall’inizio di una partita di Eccellenza, si è espresso in dolcestilnovo: “E’ uno schifo vedere le donne che vengono a fare gli arbitri. E’ una barzelletta della Federazione. Annalisa Moccia della sezione di Nola… Eccola qui, preghiamo la telecamera di inquadrarla… la vedete… una cosa impresentabile per un campo di calcio”. Lo sfogo irrefrenabile in diretta televisiva diventa materiale interessante dal punto di vista psicoanalitico giacché, al netto degli evidenti limiti culturali, l’aggressività con venature di angoscia è una reazione primordiale all’impossibilità di soddisfare una pulsione, un caso di frustrazione latente nel preconscio. Nel capolavoro felliniano La città delle donne Marcello Mastroianni, durante un viaggio in treno, viene turbato da un’avvenente passeggera, sicura e misteriosa: dopo un rapido flirt in toilette, la ragazza fugge e Mastroianni, seguendola, finisce in mezzo ad un’assemblea di femministe assetate di vendetta, una dimensione onirica che esprime la fobia dell’intellettuale benpensante per i meandri dell’universo muliebre. In maniera analoga il telecronista, mutatis mutandis, esce di senno alla vista della guardalinee precipitando in un incubo a occhi aperti: la privazione del calcio, “citta degli uomini”, ultimo feticcio esclusivo del patriarcato. In entrambi i casi, i protagonisti sono incapaci di rimuovere contenuti mentali estremamente sgraditi come le pari opportunità, e quindi il confronto autentico, senza filtri, tra i sessi.
Eppure codesti “signori del calcio per soli uomini” dovrebbero accettare i semplici dati di realtà: le donne disputano partite a buon ritmo negli stessi campi adoperati dai club maschili e arbitrano brillantemente le partite più importanti. In italia le direttrici di gara sono milleseicento ma è preclusa loro la Serie A, a differenza di Francia e Germania, capofila con l’esordio in Bundesliga nel 2017, mentre nei tornei internazionali sono in campo già da tempo: nel 2004 la francese Nicole Petignat arbitrò per la prima volta nelle qualificazioni della Coppa Uefa, altre si sono susseguite fino a raggiungere, tre lustri dopo, la finale di Supercoppa europea fra Liverpool e Chelsea. La partita, giocata a Istanbul, è stata diretta magistralmente da Stephanie Frappart, affiancata dalle guardalinee Manuela Nicolosi, italiana che durante la stagione opera nel paese transalpino, e l’irlandese Michelle O’Neal. La stessa terna femminile il mese precedente aveva arbitrato la finale dei Mondiali femminili vinta dagli Stati Uniti sull’Olanda. Un’autogestione che dimostra come il calcio delle donne non sia un film, una possibilità futuribile temuta o agognata, ma una solida e virtuosa realtà.
Forse tutto questo sarà stato uno shock per il tifoso italiano più retrogrado, ma anche lui ha dovuto digerirlo. Magari si sarà chiuso gli occhi e tappato le orecchie durante l’inno di Mameli cantato dalle ragazze di Milena Bertolini al Mondiale di Francia anziché dall’undici di Giampiero Ventura, eliminato nei gironi di qualificazione.
Dov’è la vittoria? Lo hanno chiarito le azzurre a seguito della sconfitta ai quarti di finale contro le professioniste olandesi: nel riconoscimento dei diritti che sono garantiti ai lavoratori di ogni settore. Dall’Alpi a Sicilia chiedono salari adeguati, maternità e ferie pagate, tfr, contributi previdenziali per avere una pensione. E poi assistenza sanitaria in caso di malattia e infortuni, a cui sono più esposte degli uomini. Quante squadre possono permettersi, non solo in prima squadra ma anche nelle giovanili, bravi medici, psicologi, fisioterapisti, preparatori atletici, allenatori specializzati nei vari ruoli che abbiano il patentino e abbiano studiato scienze motorie, che siano in grado di insegnare la tecnica e prevenire i traumi?

Per quanto riguarda la retribuzione, a norma di legge, le italiane possono siglare solo un accordo economico non superiore ai 12 mesi e con limiti oggettivamente ingiusti: il tetto massimo è di 30.658 euro lordi a stagione mentre non è stato ancora stabilito un salario minimo. Secondo una ricerca condotta dal quotidiano economico <<Il Sole 24 Ore>>, calcolando le modifiche del regolamento Figc fra “indennità di trasferta, rimborsi forfettari e premi”, una calciatrice di serie A, in media, “guadagna intorno ai 15mila euro lordi annui”. La differenza con gli uomini è abnorme. Solo dal 2015 i club più lungimiranti hanno iniziato a gestire squadre femminili, attualmente sono nove, ovvero la Lazio in B e le altre otto nella massima serie: Fiorentina, Juventus, Lazio, Roma, Milan, Inter, Verona, Sassuolo ed Empoli. La Fiorentia di San Gimignano ha solo la formazione femminile mentre Tavagnacco, Pink Bari e Orobica di Bergamo sono società dilettantistiche. E se la media per la A è quella sopracitata, i sacrifici si moltiplicano per le atlete delle categorie inferiori. I rimborsi, che partono dalla miseria di un centinaio di euro, non superano gli 800 per una serie B d’alta classifica e una provinciale di A. Per rendersi conto di quanto sia impervia e lunga la strada per la parità basti pensare che le campionesse americane, capaci di dare lustro e sviluppo al sistema calcio statunitense, sono in lotta da anni contro la discriminazione sessuale: alla vigilia del Mondiale il premio individuale per le giocatrici era di 99mila dollari per 20 amichevoli vinte mentre per gli uomini la cifra saliva a 263mila dollari più vari dalla ventunesima partita disputata in poi.

Le italiane, artefici di un Mondiale e di campionati interessanti, dove il gioco espresso si è non di rado rivelato tecnico e fantasioso, anche nelle serie inferiori e nel calcio a 5, sono le uniche fra le prime otto nazionali a restare confinate nei dilettanti. Tuttavia, non hanno alcuna intenzione di porgere la chioma, piegandosi al conformismo della passerella una tantum.
L’Italia s’è desta perché le azzurre dopo vent’anni hanno giocato un campionato del mondo e sono entrate nelle case, nei bar, nei maxischermi del Belpaese. Nessuno può ignorare quanto accaduto, simulando che si sia trattato di un effetto transitorio o di una moda. I dati ufficiali forniti dalla Fifa sono inequivocabili: 1 miliardo e 120 milioni di persone ha seguito il torneo in televisione, sulle piattaforme digitali e in luoghi pubblici. La finale è stata vista complessivamente da 82 milioni e 180mila cittadini, in aumento del 56% rispetto alla sfida decisiva del precedente Mondiale in Canada. Le cinque gare disputate dalle azzurre hanno fatto registrare in Italia 24 milioni e 410 mila telespettatori con uno share medio del 31,84%. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ricevendo la delegazione dell’Italia femminile, ha esordito con un emblematico: “Scusate il ritardo”. Il Capo dello Stato, oltre a confermare l’evidenza della conquista “dell’opinione pubblica”, e alla consueta prudenza, chè “non tocca a me stabilire le forme in cui si decide il calcio”, ha però riconosciuto alcuni elementi importanti: “Non è razionale e non è accettabile una diversa condizione tra calcio femminile e maschile. Al di là dell’elevato tasso tecnico, da parte vostra è stato molto minore il ricorso agli infingimenti”.

sara gama

Stando ai dati aggiornati al giugno 2018, le tesserate italiane sono 25.986, tra le quali 12.908 minorenni, in aumento del 70% rispetto a vent’anni orsono. Le bambine dai 6 ai 16 anni possono giocare in squadre miste con i maschi o in squadre femminili che disputano il campionato dei ragazzi, la Figc dal 2015 obbliga i club di serie A a tesserare almeno ulteriori 20 calciatrici under 12, rispetto alla stagione precedente, all’interno del proprio settore giovanile. Ciononostante, il livello resta quello della Svizzera. L’Italia occupa il diciottesimo posto in Europa per tesserate under 18 con una percentuale dello 0,3%, la Svezia fa registrare il 15%, l’Olanda il 6,7% e la Germania il 3%. La Fgci riserva solo 4 milioni e 200 mila euro al calcio femminile contro i 15,4 milioni della Football Association inglese, i 10 milioni di Germania e Francia, i 7,7 della Norvegia e i 5,7 della Svezia. Dunque non deve stupire che le tesserate tedesche siano duecentomila, le svedesi e le olandesi oltre centocinquantamila e le francesi centoventicinquemila.
Il problema è sia generale, se consideriamo la riduzione delle ore di ginnastica alle scuole elementari, sia specifico. Stando a un’indagine Uefa, una bambina italiana, per giocare a calcio, deve spostarsi dai venti ai quaranta chilometri dal luogo di residenza, mentre in Germania la distanza è di dieci chilometri. Secondo la ct Bertolini “raramente le bambine trovano un’accoglienza che le incentiva, che le spinge a continuare per cui o sono super motivate o lasciano. Bisogna stimolare i dirigenti delle società di calcio di quartiere a spianare la strada a bambine e famiglie, ad andare a cercare le ragazze e accoglierle con entusiasmo, solo così allarghi la base, cosa fondamentale per la crescita del movimento. Non bisogna dimenticare due cose: che il calcio è lo sport di squadra più praticato dalle donne nel mondo e che di conseguenza legato al movimento c’è un aspetto commerciale molto potente che in altri Paesi hanno colto perfettamente, mentre da noi ancora no”. La situazione sta lentamente migliorando perché esistono dei modelli di riferimento, le campionesse della Nazionale usano i social e s’impegnano in prima persona. Il macigno da rimuovere è sempre di natura culturale. L’allenatrice della Nazionale ha raccontato alla Gazzetta dello Sport: “Quando ho iniziato io per giocare dovevi assumere atteggiamenti maschili, altrimenti non venivi accettata dal gruppo, venivi esclusa. Adesso è molto più semplice. È chiaro che il pensiero medio dell’italiano è ancora quello che la ragazza che gioca a calcio è una donna strana ma le cose stanno cambiando, soprattutto tra i giovani. Chi ha una certa età non cambia più, ma i giovani sono diversi. Per questo è fondamentale il ruolo e l’appoggio dei media”.
Elisa Bartoli, capitana della Roma e difensore della Nazionale, è stata intervistata ieri sera da Serena Dandini nel programma di Rai3 Stati Generali, ultima puntata di un’isola felice nel panorama mediatico generalista. Bartoli spiega che “i pregiudizi ci scivolano addosso, siamo concentrate sul piacere di giocare. Io non mi sento una calciatrice, perchè non sono una professionista. Ho iniziato coi maschietti, ne ho viste tante di difficoltà. Non siamo riconosciute come professioniste ma andiamo avanti finché avremo emozioni e sensazioni bellissime”. Giulia Nicastro, arbitro, è oggetto di turpiloquio ogni settimana: un giocatore per protesta dopo un’ammonizione si è levato i pantaloni mimando atti sessuali. Lei lo ha espulso, ma i genitori le davano della prostituta, Giulia non ha fatto una piega, continuando la partita: “Ho pensato tante volte chi me lo facesse fare, potrei stare a casa senza insulti. Mi fa male, però penso che vedermi ancora lì, dopo tutto quello che mi hanno detto, è una bella risposta”.