Grecia, Italia, mondo. Su Left il ritratto di Christine Lagarde e la funzione storica del Fmi

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Il destino della Grecia e dell’ Europa fino a ieri dipendeva soprattutto da una signora dei primati: la direttrice del fondo monetario internazionale Christine Lagarde. Oggi il governo ellenico oppone la democrazia del referendum alla tecnocrazia dei memorandum e non poteva rappresentarsi più chiaramente la dicotomia tra élite finanziaria e popolo, stremato da cinque anni di austerity che sono valsi 106 miliardi di euro di tagli di spesa pubblica. Sino a quando Tsipras ha detto “ no “ al nuovo ricatto della Troika, la parabola della liberista Lagarde, ex ministro dell’ Economia francese e potente avvocato, era un inno all’ efficienza nella conservazione. La rottura del negoziato sul debito greco è arrivata mentre toccava a lei indossare la maschera dell’ intransigenza al posto della Germania, che poi ha confermato l’ asse mediante l’ inopportuno intervento del presidente dell’ Europarlamento Martin Schulz. Ed è significativo che le prese di distanza dalla Lagarde provengano dalla Francia. Facendo autocritica, il socialista Dominique Strauss- Kahn, suo predecessore al Fmi e coautore del programma di prestiti, ha chiesto una massiccia riduzione del debito greco: 222 miliardi di crediti ripartiti tra Fondo europeo di stabilità finanziaria, Stati, Bce e appunto Fmi, che ne vanta 24 miliardi compresa la rata da 1,6 scaduta a giugno. Da tempo i tecnici legati a Strauss- Kahn vanno denunciando le previsioni errate su crescita e sostenibilità debitoria; Olivier Blanchard, capo economico del Fondo fino a maggio, concordava con i keynesiani sulla necessità di policy espansive. E non si tratta solo di mettere in discussione Lagarde, ma la stessa funzione del Fmi, creato nel dopoguerra per il riequilibrio delle bilance dei pagamenti e la stabilità valutaria, ma presto divenuto gestore delle crisi finanziarie degli Stati, imponendo privatizzazioni, nuove tasse, tagli e controriforme sul diritto del lavoro. Oggi però, il ruolo di Lagarde è effettivamente geostrategico anche per via della riforma dell’ Fmi, dove Russia, India e Cina detengono assieme circa la metà dei diritti speciali di prelievo degli Stati Uniti. E c’è chi, crisi greca permettendo, per il suo ruolo profetizza la candidatura di Lagarde all’ Eliseo nel 2017. Sarebbe la chiusura del cerchio di Giotto di una carriera d’oro.

Christine nasce nel 1956 a Parigi, figlia di un professore di inglese e di una maestra di liceo che le permettono di finire le superiori al college femminile Holton- Arms School di Bethesda, Washington. Tornata in Francia alla fine degli anni Settanta, non si appassiona ai movimenti civili come i coetanei ma resta concentrata sullo studio e sul nuoto sincronizzato, che pratica a livello agonistico. Nel 1982 sposa l’ analista finanziario Wilfred Lagarde, da cui sceglie di prendere il cognome e avrà due figli. Dopo la laurea in Legge e un master in Scienze politiche, Lagarde prosegue la staffetta con gli States entrando nello studio Baker&McKenzie, gruppo di Chicago con collaboratori in 35 Paesi. Nel 1999 ne assumerà la presidenza.

Alla politica si affaccia durante uno stage post laurea per il deputato William Cohen, eletto coi repubblicani ma poi segretario della Difesa del presidente Bill Clinton. E se il percorso di Christine è analogo a quello della moglie e neocandidata Hillary, l’altra corporate lawyer più influente del pianeta, lo è soltanto a livello professionale. Prima di aderire all’ Ump di Nicolas Sarkozy, Lagarde si trovava più a sinistra dei Clinton: nel 1981 votò Francois Mitterand. Ma è stato un attimo. E forse aveva soltanto previsto la marcia indietro del presidente socialista rispetto al programma di nazionalizzazioni e di riduzione dell’ orario di lavoro a parità di salario. L’ascesa avviene col governo di centro- destra, ed è merito del primo ministro Dominique De Villepin, che nel 2005 la sceglie per il Commercio estero. Con François Fillon, Lagarde passa al dicastero dell’ Agricoltura e nel 2007 è la prima ministra donna di Economia e Finanze. Il plauso unanime del mainstream per l’ opera di risanamento del bilancio pubblico la rende la candidata giusta al momento giusto per il Fmi, quando Strauss- Kahn nel 2011 viene travolto dalle accuse di violenza sessuale (da cui poi sarà assolto). Su Lagarde invece c’è solo l’ombra di un’ inchiesta per negligenza aperta dalla Corte di giustizia in riferimento a 403 milioni pagati dallo Stato francese a Bernard Tapie. I magistrati considerano anomala la scelta di affidare a un arbitrato privato il verdetto sul contenzioso che opponeva l’uomo d’affari marsigliese e la banca Credit Lyonnais, per la consulenza nella cessione del marchio Adidas. Tapie era un frequentatore dell’ Eliseo ai tempi di Sarkozy, il cui legame con Lagarde ha fatto il giro del mondo dopo la pubblicazione dei bigliettini di lei, improntati alla fedeltà assoluta: “ Se mi usi “, gli scriveva in una lettera trovata in casa sua, in bozza, dagli investigatori, “ ho bisogno di te come guida e come sostegno: senza guida, rischio di essere inefficace; senza sostegno, rischio di essere poco credibile “.

Di francese, Madame le Directeur indossa l’eleganza ma non l’accento, del resto la chiamano l’ Americaine per la padronanza dell’inglese o forse per l’abilità nel nuoto tra gli squali della finanza. Christine Lagarde ha due figli e due ex mariti, incontra una settimana al mese il compagno marsigliese Xavier Giocanti, è vegetariana e fa attività fisica ogni giorno. Una vita sincronizzata, da tecnica. Quando fa politica esprime punti di vista interessanti, come la valutazione dei benefici per l’economia che deriverebbero da una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Ma in un film, più che un’affermata femminista sarebbe l’eroina hollywodiana che fornisce l’ alibi al sistema patriarcale. Perchè le dichiarazioni con cui Lagarde invoca detassazioni per la crescita e celebra gli studi sulle disuguaglianze cozzano con i trattati europei, i patti di stabilità dell’ Eurozona e le ristrutturazioni del debito pubblico in cambio di “riforme” neoliberali, in Grecia come altrove. Se nelle interviste va ripetendo che “bisogna”mantenere il passo nella riduzione della spesa pubblica”, all’inaugurazione dell’anno scolastico alla Bocconi Lagarde ha immancabilmente elogiato il Jobs act di Renzi: “Serve a migliorare il mercato del lavoro”.

(4 giugno 2015)

Left/Avvenimenti, intervista al fondatore di Mmt, Warren Mosler

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Le più recenti formulazioni della Modern Money Theory sono dell’economista post-keynesiano Warren Mosler, statunitense. Le leve per la crescita sono più spesa pubblica e meno tasse. Left gli ha chiesto come applicarle ai paesi dell’area Euro, ostaggio di rigidi paletti di bilancio e di una grave crisi economica e sociale. Non accende la speranza, leggere Mosler, dobbiamo avvisarvi. Sostiene che per rilanciare l’occupazione sarebbe necessario andare oltre al doppio del rapporto tra deficit e Pil ma che siamo in mano alla Germania, sì, e che questa, Merkel e Schaeuble, «ha un problema del tutto ideologico, persino filosofico».

La Modern Money Theory considera virtuoso il disavanzo pubblico volto al rilancio di produzioni qualitative, consumi e occupazione. Queste idee hanno influenzato il governo Obama…

Le nostre idee sono arrivate a Obama, quando sono stato candidato al Senato in Connecticut, nel 2010, proponendo una riduzione o un’eliminazione del cuneo fiscale. Del resto, la tassazione sulla busta paga è l’imposta più regressiva che abbiamo negli Usa e l’argomento è quindi efficace. Scrissi alcuni articoli e feci alcune apparizioni televisive, e Jamie Galbraith, consigliere di Obama, cominciò a riprendere i nostri contenuti pubblicamente. L’idea suscitò anche l’interesse dell’amministratore delegato della General Electric, Jeffrey Immelt, e poi quello di Troy Nash, un altro degli assistenti di Obama. E così il taglio del cuneo fiscale è diventato legge. Si tratta di un taglio minimo, del 2 per cento ma importante, anche perché è uno dei pochi provvedimenti bipartisan. Questa misura ha contribuito ad alimentare la crescita negli Stati Uniti, che ha subìto poi un sostanziale rallentamento nel momento in cui il governo ha voluto iniziare a ridurre il deficit pubblico.

Ecco, l’ossessione per il deficit. Nell’area Euro i trattati rendono difficili, se non impossibili gli investimenti e l’ampliamento del welfare. Pensa siano applicabili queste policy?

Se vi fosse la volontà politica, sì. Ma non ne vedo, al momento. Ed è un peccato, perché basterebbe decidere di aumentare il vincolo di rapporto col Pil dal 3 per cento all’8. Senza altre variazioni nella struttura delle istituzioni Ue, la disoccupazione diminuirebbe e la crescita potrebbe arrivare anche al 4 per cento.

Non è una strada che piace alla Germania, però.

La Germania ha un problema del tutto ideologico, persino filosofico.

I neoliberali sottolineano come Argentina e Brasile, che hanno aumentato la spesa sociale facendo uscire dalle povertà milioni di persone, abbiano però avuto contraccolpi economici. Cosa risponde?

Beh, facciamo un esempio. Se in una stanza fa molto freddo, puoi riscaldare l’ambiente con un termostato. Può capitare che diventi persino troppo caldo, e quindi si è costretti a far calare la temperatura. Può succedere quindi che vi sia qualche paese in cui si spende in maniera eccessiva, e spesso questo dipende dalla corruzione, soprattutto da quella del settore bancario. Ciò porta la valuta a svalutarsi, l’inflazione ad aumentare e i cittadini a pagare prezzi crescenti. Spesso non si tratta però di conseguenze delle politiche economiche, ma di caratteristiche di quei sistemi.

Economisti progressisti come Emiliano Brancaccio e Alessio Ferraro sottolineano la differenza tra un’uscita “da sinistra” dalla moneta unica e un’uscita “da destra”, come avvenne quando l’Italia abbandonò lo Sme privatizzando e contraendo i salari.

Gli intellettuali progressisti hanno a lungo visto nell’Unione europea una via maestra per il rifiuto delle politiche regressive di stampo nazionalista. Sfortunatamente chi governa oggi questa istituzione ha sviluppato un’agenda economica fortemente regressiva, di destra. Uscirne tuttavia significa esporsi, appunto, ad un alto rischio di crescita del nazionalismo. La sfida è capire quale fra tutte le possibili strade sia meno “di destra” rispetto alle altre.

E restando nell’eurozona lei cosa proporrebbe?

Se vi fosse la volontà politica di fare qualunque di diverso rispetto alle politiche attuali, allora bisognerebbe puntare ad incrementare il deficit. Le istituzioni europee credono che agire sui tassi di interesse migliori l’economia e che le riforme strutturali consentano di aumentare l’occupazione. Non è così.

Il direttore del Foglio Giuliano Ferrara ha rilanciato un’idea precedente ai Trattati: l’euro a due velocità.

Ancora una volta, credo manchi la volontà. I politici sono stati trasformati in esattori delle tasse: non hanno nessuna prospettiva economica.

E in Italia? Quali feedback state ricevendo in particolare dal presidente del Consiglio Matteo Renzi?

Non hanno nessun interesse, al governo sono totalmente passivi. Qualcuno mi ha chiesto quale politica economica abbia in mente Renzi: ho risposto che non ne ha una! E come lui, però, nessuno, in Europa. Manca la logica. Ad esempio: mettiamo che voi crediate realmente che in Grecia siano tutti pigri e nessuno abbia voglia di lavorare. Anche se voleste punirli, che senso ha creare politiche in cui gli stessi greci sono messi nelle condizioni di non poter più lavorare?

Un quadro a tinte fosche. Cosa prevede per il futuro?

Credo che il tasso di cambio dell’euro si rafforzerà molto e la Germania vedrà le esportazioni nette deteriorarsi. Non c’è nulla che siano in grado di fare. Sono impotenti. Sarà una distruzione della società fondata sulla deflazione e l’apprezzamento della valuta. Nei sei mesi scorsi l’euro è sceso temporaneamente, perché le banche centrali mondiali hanno reagito al Quantitative Easing e hanno iniziato a vendere grandi quantità di euro; questo processo però terminerà. Ora che l’euro tornerà a crescere, cosa faranno? Non gli resta nulla.

Left Avvenimenti (23 maggio 2015)

Hillary e le altre nel sistema patriarcale. La Sinistra riparta dalla questione femminile

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Hillary Clinton corre per la successione a Barack Obama. E tutti a salutare quella che potrebbe essere (ma forse no, finendo per consegnare il governo alla destra americana) la prima donna alla guida degli Usa. E’ quasi una panacea per la questione femminile, Hillary, e poco importa se ciò avvenga sulla scia del marito Bill e col sostegno delle lobby di Wall Street. Il valore è simbolico. Per le classi dominanti sono da celebrare le donne che acquisiscono, in perfetta continuità politica, ruoli storicamente appannaggio degli uomini. Fu su Margareth Thatcher che i conservatori puntarono per piegare le Unions e prosciugare il welfare state inglese, la cancelliera Angela Merkel è la depositaria del SuperEs dell’ area Euro, per non parlare di Christine Lagarde, direttrice del Fondo monetario internazionale.

Anche in Italia, con Matteo Renzi, è così. Quante volte ha sventolato, il premier, le sue otto ministre, l’”altra metà del Consiglio dei ministri”. Le italiane non hanno mai avuto accesso alla presidenza della Repubblica e del Consiglio, al ministero dell’ Economia, alla guida della Corte costituzionale, ma vuoi mettere il passo in avanti? Le governatrici oggi sono Debora Serracchiani e Catiuscia Marini, questa ricandidata in Umbria nella tornata amministrativa che vede in pista altre due renziane: in Veneto l’europarlamentare Alessandea “ ladylike “ Moretti e in Liguria l’assessore alla Protezione civile Raffaella Paita, vincitrice delle contestate primarie contro Sergio Cofferati e indagata per la mancata allerta dell’ alluvione di Genova. E così la presenza femminile distrae anche dai problemi etici, su cui il partito di Renzi non ha certo “ cambiato verso “ candidando in Campania Vincenzo De Luca, condannato in primo grado per abuso d’ufficio.

E chissà poi perché, nonostante governatrici e ministre, il Belpaese è al 69esimo posto nel Global gender gap report,la classifica del World economic forum che intreccia quattro parametri: politica, economia, salute e scuola. Per l’aspettativa di vita e l’istruzione la situazione è quasi in equilibrio, ma il divario resta netto nel mondo del lavoro: gli uomini sono il 71 per cento dei dirigenti contro il 29 delle donne e, in media, guadagnano 2.000 euro in più all’anno.

Scatena spesso il sarcasmo di avversari ed ex alleati di coalizione, la presidente della Camera Laura Boldrini quando si impegna per la diffusione del linguaggio sessuato e denuncia le pubblicità che mercificano il corpo o insistono con gli stereotipi di genere. Pensate che gli attacchi anche violenti che subisce la terza carica dello Stato dipendano dal suo supposto carattere ieratico? E se invece contassero qualcosa i meccanismi con cui le élite finanziarie selezionano lo streaming di informazioni per l’ Homo consumens– per usare l’espressione coniata da Zygmunt Bauman? Se Hollywood spesso riproduce in forme edulcorate l’archetipo patriarcale, la televisione, qui appesantita dalla degenerazione berlusconiana, si conferma formidabile vettore di modelli diseducativi. La subcultura sessista si nutre poi di fenomeni nazionalpopolari come il calcio: basti pensare alla ghettizzazione del football femminile e alla notiziabilità delle atlete che finiscono nelle fotogallery dei più grandi siti di informazione quasi esclusivamente per fattori estetici.

Le statistiche danno ragione a Laura Boldrini. Secondo un’indagine Ocse ( Programme for international student Assessment 2015 ) ancora oggi le italiane in media svolgono lavori casalinghi per 6,7 ore al giorno contro le 3 degli uomini. La ricerca sottolinea quanto le ragazze di 15 anni ottengano già risultati migliori dei coetanei in abilità di lettura ( con un punteggio di 510 contro 464) e scientifica ( 490 a 488 ), ma di questo capitale umano si può fare a meno, se la legge Fornero, ad esempio, applicata e non modificata, cementa (tra le altre cose) lo squilibrio nelle responsabilità familiari. Il ministro del governo Monti ( una donna, ma al solito non progressista ) ha introdotto, per il padre il congedo parentale obbligatorio. Ma è di un giorno nei primi cinque mesi dalla nascita del figlio, allungabile fino a tre, sottraendoli però al monte-giorni della madre. In Norvegia, Paese pioniere vent’anni fa, il congedo parentale è di quarantasei settimane a stipendio pieno, di cui dodici riservate al padre. Siamo in ritardo anche nel potenziamento di asili nido pubblici, nella deducibilità dei costi per baby sitter e badanti. E certo non aiuta la parità, la precarizzazione permanente del Jobs Act.

C’è poi il mondo delle imprese. In Europa, secondo i dati della Commissione, la presenza femminile delle Spa in cinque anni è aumentata dall’ 11,9 al 20,2 per cento. Ad alzare la media sono la Norvegia, che ha raggiunto il 40, la Francia e la Finlandia che sono al 25. Spagna e Portogallo, invece, la abbassano, restando sotto il 10 per cento. L’Italia fa registrare un dignitoso 23 per cento, e lo fa grazie alla legge firmata dalle deputate Lella Golfo( Pdl) e Alessia Mosca(Pd) che stabilisce l’obbligo del minimo di un quinto di donne nei cda al primo rinnovo, un terzo per i due seguenti. Si sono anche dimezzate ( al 7,9 per cento contro il 16,2 del 2010) le consigliere legate da rapporti di parentela con uomini di potere: figlie di,mogli di, cugine di.

Le donne in politica sono di più ma la riduzione del gap di genere si è realizzata per mezzo delle quote. Il Pd, ad esempio, ha introdotto il doppio voto di genere alle primarie, portando in Parlamento il 37,9 per cento di deputate e senatrici. Il sistema però consta di una gabbia che perpetua nomine correntocratiche e capilista bloccati nelle liste elettorali, le donne( come gli uomini) vengono cooptate solo se aderenti a un preciso schema in grado di assorbirle e, ove possibile, strumentalizzarle. I piccoli avanzamenti sono rivendicati da un marketing padronale che vuole significare la concessione dall’alto di un diritto naturale sancito in Costituzione. Matteo Renzi, sin da quando amministrava Firenze, compie scelte simboliche che il presenzialismo mediatico gli permette di capitalizzare. Prima di lui però la sinistra non ha certo fatto meglio, perché ha conosciuto una sola leader di partito, Grazia Francescato dei Verdi. Già fondatrice di Effe, presidente del Wwf e animatrice del movimento new global, Francescato ereditò una base elettorale minima. In Germania- tanto per fare un paragone – gli ambientalisti e la Die Linke, guidati da Claudia Roth e Katja Kipping in coabitazione con pari grado uomini, superano entrambi l’8 per cento. In Francia, la socialista Ségolène Royal nel 2007 contese l’ Eliseo a Sarkozy e l’anno seguente sfiorò la segreteria del partito per una manciata di voti.

Nel Regno Unito, in vista delle politiche del 7 maggio, si è saldata una nuova alleanza tra donne: Natalie Bennett, leader dei Verdi, Nicola Sturgeon, premier scozzese a capo dello Scottish national party, e la gallese Leanne Wood del Plaid Cymru. Al termine del confronto televisivo dedicato alle opposizioni, le tre candidate si sono abbracciate sul podio della Bbc. La scena, tra l’isolamento di Nigel Farage dell’ Ukip, all’estrema destra, e lo stupore del laburista Ed Miliband, è emblematica quanto il significato politico. Si tratta infatti di progressiste under 50 che hanno vincolato l’eventuale sostegno a Miliband ad una mutazione della linea del Labour dopo un ventennio di Terza via blairiana: il ritorno a sinistra. In Italia, a contendere una leadership, sono state Rosy Bindi nel 2007 contro il “creatore” del Pd Walter Veltroni, e Laura Puppato, altra moderata cattolica, con chances di vittoria perfino minori, stretta nel 2012 tra Matteo Renzi, Pier Luigi Bersani, Nichi Vendola e Bruno Tabacci.

Di Maria Elena Boschi si dice che governi ogni riunione ma è perché “ quando parla lei tutti sanno che a parlare è Renzi” confida a Left un membro dello staff di palazzo Chigi. Le donne-soprattutto se portatrici di valori progressisti- faticano non poco, nelle stanze dei bottoni. Almeno secondo la scrittrice e deputata del Pd Michela Marzano, direttrice del Dipartimento di Scienze sociali alla Sorbona e insegnante alla Descartes, che si è scontrata con un muro trasversale, quando ha proposto i diritti delle coppie omosessuali e la legge sul doppio cognome dei figli. L’esperienza parlamentare ha traumatizzato Marzano, che ha deciso di non ricandidarsi: “ Non ci si ascolta in aula e nemmeno durante le riunioni di partito. Ogni tipo di investitura risente dell’obbligo della fedeltà, di avere truppe nel contado, armi di scambio a disposizione”.

Cerchiamo però di andare alla radice del problema. La “ governamentalità neoliberale “, prendendo in prestito la formula di Pierre Dardot e Christian Laval, autori de La nuova ragione del mondo”, presuppone il controllo di tre blocchi distinti e interdipendenti: l’ economia, la politica e i centri di diffusione del sapere. Dal momento che l’egemonia culturale è la pre-condizione, occorre interrogarsi sul meccanismo che regola le discriminazioni di genere così come si sono indagati le ingiustizie sociali e il razzismo. Non molti, ad esempio, sono consapevoli dell’esistenza di antiche società matriarcali.

L’ epica classica è ricca di venerazioni politeiste varianti della “ Dea Madre” e numerosi reperti testimoniano la centralità delle donne nelle pacifiche comunità che vivevano di orticoltura e piccola cacciagione. Eppure è stato contrabbandato lo schema totalizzante che relega la femmina all’altruismo della cura e attribuisce al maschio le grandi imprese. Sul cacciatore che erige polis e fortezze per difendersi e conquistare, Rousseau diceva che la genesi dell’oppressione umana risale alla fase primordiale della divisione delle terre e del lavoro. Il sistema patriarcale, supportato dalle religioni monoteiste del “ Dio Padre “, ha consolidato usi e linguaggio in codici e istituzioni che privarono le donne delle libertà sessuali, economiche e sociali. Non è difficile comprendere come tale contesto abbia favorito feroci persecuzioni in nome di religioni e superstizioni, in particolare nel Medioevo, e pratiche che affliggono ancora milioni di cittadine: mutilazioni genitali nell’Africa subsahariana, in condizioni aggravate da malnutrizione e malattie; lapidazioni delle adultere in Paesi governati da fondamentalisti islamici; in India spose-bambine e abusi sulle donne appartenenti a sottocaste.

Alla base delle sopraffazioni, più dell’indigenza economica, vi è l’oscurantismo. Lo si evince anche scorrendo gli occidentalissimi verbali di stupri, molestie e maltrattamenti domestici, o dall’ascolto di processi per femminicidio: il più delle volte lui reagisce all’emancipazione , quando lei si ribella o reclama semplicemente la propria indipendenza. Il fil rouge della violenza, dunque, riporta sempre all’egemonia che nei millenni ha garantito i rapporti di potere. Ben sapendo che il diritto del più forte diventa legge duratura se associa al controllo degli eserciti quello delle conoscenze.

Biologi e genetisti, preservando il mito di Adamo ed Eva, hanno ignorato la primigenia del cromosoma X rispetto al maschile Y; scienziati si sono ricoperti di ridicolo affermando l’inferiorità dell’intelligenza femminile per via della minor ampiezza cranica; psicanalisti come Sigmund Freud hanno teorizzato l’ invidia del pene. Ma la Storia diffonde il punto di vista dei vincitori. E, in ogni parte del globo, sono stati sviliti gli importanti contributi che le donne, malgrado le costrizioni, hanno donato al progresso umano e ambientale. Il socialista inglese William Thompson, nel 1825, pagò con l’ostracismo l’invito alla ribellione femminile: “ La vostra schiavitù ha incatenato l’uomo all’ignoranza e ai vizi del dispotismo, così la vostra liberazione lo ricompenserà con il sapere, la libertà e la felicità”.

Non è un caso che le riforme progressiste si siano ottenute in peculiari dimensioni di vuoti di potere provocati da guerre o rivolgimenti economici. Durante la Rivoluzione francese la girondina Olympe De Gouges, poi uccisa dai giacobini, diede alle stampe la Dichiarazione dei diritti della donna. Un’altra breccia fu aperta nel Risorgimento, mentre si faceva l’Italia a dispetto del potere temporale della Chiesa. Nel 1861, prima che John Stuart Mill avanzasse la proposta del diritto di voto, il deputato mazziniano Salvatore Morelli scrisse La donna e la scienza considerate come soli mezzi atti a risolvere il problema dell’avvenire. Democrazia reale, scuole normali per studentesse, divorzio, doppio cognome dei figli, tutela della prole illegittima: un sasso nello stagno,anche se i disegni di legge di Morelli vennero tutti bocciati, salvo la norma che riconosce alle donne la facoltà di testimoniare nei procedimenti civili. Il diritto di voto, anziché il suffragio universale maschile del governo Giolitti- ridicolo ossimoro elevato a illuminato liberalismo- fu imposto soltanto con la Liberazione. Durante la Resistenza le partigiane, 30.000 tra staffette e guerrigliere, ruppero l’abituale esclusione dalla vita pubblica partecipando alla fase costituente. Le energie sono andate via via sprigionandosi quando la contaminazione tra movimento femminista e sessantottino, sospingendo sindacati e partiti di sinistra, ha contribuito al “ trentennio glorioso “: il servizio sanitario nazionale, l’obbligo scolastico a quattordici anni, lo Statuto dei lavoratori che prevede il divieto di licenziare le dipendenti incinte. La lotta per la parità ha permesso la diffusione della contraccezione, l’accesso alle funzioni pubbliche, le leggi su divorzio e aborto, la cancellazione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore normati dal codice fascista. L’ interazione si fondava sul comune convincimento che la libertà socio-economica fosse legata al percorso di emancipazione sessuale. E da qui dovrebbe ripartire la sinistra, coinvolgendo le donne che oggi forniscono visioni alternative in tanti campi della società. Il meccanismo dovrebbe essere opposto a quello della comunicazione mainstream che, alternando generici allarmi e impennate d’ottimismo, confina la questione femminile a mero calcolo di quote rosa. Il timore è sempre lo stesso: che donne e uomini si affranchino costruendo nuovi rapporti di spazio e tempo liberati, secondo i bisogni naturali di salute, consumo consapevole,conoscenza e creatività votate al benessere collettivo.

Left Avvenimenti (25 aprile 2015)

Galbraith & Kelton, la coppia di “gufi” che sposta a sinistra Obama

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Lui, James Galbraith, è il consigliere di Obama più a sinistra, talmente a sinistra da non comparire nella foto di governo. Lei, Stephanie Kelton, capo Dipartimento di Kansas City, è stata nominata due mesi fa chief economist della Commissione Bilancio su indicazione dell’unico senatore americano dichiaratamente socialista, Bernie Sanders, candidato della minoranza democrats alle primarie 2016 contro la superfavorita Hillary Clinton. Tanto Galbraith quanto Kelton gravitano attorno alla Modern Monetary Theory, scuola di pensiero che riattualizza John Maynard Keynes e si rifiuta di intendere il bilancio dello Stato alla stregua di quello di un’azienda o di una famiglia. Secondo la Mmt l’aumento della spesa pubblica è un elemento di progresso, perché alimenta il circolo di consumi e produzioni tendente alla piena occupazione.

Il padre di James Galbraith, John Kenneth, fu consigliere di Roosevelt ai tempi del New Deal e avanguardia della squadra di JFK: con la proposta di nazionalizzare le corporations si guadagnò l’accusa di bolscevismo. Galbraith jr, docente di Public Policy in Texas, ha collaborato alla Modest purposal ed è fonte inesauribile di ispirazione per Yanis Varoufakis (come raccontato da Left nel numero del 14 febbraio). Galbraith è uno dei consulenti di Varoufakis nella rinegoziazione del debito greco, snodo cruciale per la possibile emancipazione dai dogmi dell’austerity dell’Unione monetaria imposti dal mainstream neoliberale. I nemici, dunque, sono gli stessi del padre, che aveva previsto molte cose scrivendo il discorso inaugurale di Kennedy, il 20 gennaio 1961: «Nessuno deve negoziare sotto la morsa della paura. E nessuno deve aver paura di negoziare».

Anche grazie all’influenza del mondo accademico postkeynesiano Barack Obama ha orientato le politiche espansive oltre l’emergenziale Quantitative Easing, sistema adottato di recente dalla Bce per iniettare liquidità alle banche. Mariana Mazzucato, studiosa italo-americana autrice del libro The Entrepreneurial State, esprime un giudizio positivo: «Nel 2009 Obama mise in campo un piano di stimoli da 787 miliardi di dollari destinati all’innovazione verde e allo sviluppo di infrastrutture moderne. Ed in effetti, mentre la recessione europea continua, crescita e occupazione stanno tornando negli Stati Uniti».

Stephanie Kelton, appena insediata in Senato, ha elaborato un grafico dal quale emerge la diversità strutturale tra le politiche dei governi di Barack Obama e di Bill Clinton. Al netto della peculiare condizione di negatività della bilancia dei pagamenti, permessa dal predominio del dollaro, sotto l’attuale amministrazione si è registrato un surplus per imprese e cittadini, in parte legato ai maggiori investimenti pubblici. Il famigerato disavanzo dei conti dello Stato, incubo delle economie europee, nel 2009 è cresciuto fino al 10 per cento di Pil rispondendo alla crisi finanziaria con il progresso sociale. Riforme fondamentali come quella sanitaria, malgrado l’ostruzionismo dei repubblicani e delle lobby assicurative, stanno avvicinando gli Usa a livelli di welfare europei. Dal 2010 al 2012 la spesa per la Sanità pubblica è aumentata in media del 2,5%, più di quella privata e del Pil, che nello stesso periodo è cresciuto del 2,2%. Nell’ambito delle campagne per sensibilizzare i cittadini, nelle scorse settimane Obama ha realizzato un video divertente in cui invita a iscriversi al piano assicurativo entro la scadenza. Al completamento della riforma, si calcola che la copertura sanitaria sarà estesa a 30 milioni di americani. Nel periodo della presidenza Clinton, invece, middle e working class erano state colpite da tagli sociali e maggiori imposte. In un secondo tempo, l’ex premier democratico, piuttosto che rafforzare i salari e il welfare, intraprese la strada preferita dalle élite finanziarie e industriali: incentivò il credito con misure straordinarie come l’abolizione dello Steagall Glass Act, legge voluta da Roosevelt per distinguere tra banche commerciali e d’affari.

Per il giro della Modern Monetary Theory, Kelton ha coniato, non a caso, l’espressione «gufi del deficit», contrapposti ai bilanciofobici. Vi ricorda qualcosa? Matteo Renzi ne ha ribaltato il senso, ma l’espressione è la stessa. Così come, ancora dall’amministrazione Obama, Renzi ha preso il suo «jobs act», che lì è però un provvedimento sulle start-up e non una norma che trasforma anche l’ultimo contratto a tempo indeterminato in precariato permanente. È d’altronde noto che Renzi per le sue politiche preferisca seguire il solco della “Terza via” di Bill Clinton e Tony Blair, con cui i governi occidentali hanno ammantato di moderno efficientismo e rigore moralistico la contrazione dei salari e la precarizzazione del lavoro, nonché la privatizzazione di reti, servizi e beni pubblici.

L’alternativa è guardare ai gufi del deficit, sull’onda della resilienza di Syriza in Grecia, e a Mariana Mazzucato, di cui pure Renzi comprò il libro Lo Stato innovatore, ben attento a farsi fotografare alle casse della libreria. Mazzucato rovescia la prospettiva dal punto di vista culturale, postulando un sistema pubblico lungimirante, capace di sospingere e disegnare ex novo settori qualitativi come la green economy. Quando Kelton l’ha invitata via Twitter a combinare le rispettive intuizioni per cambiare «davvero la partita», Mazzucato ha rilanciato il mantra: «Investimenti strategici e Kelton». Un perfetto mix. La contaminazione sperimentale tra le sponde progressiste dell’Atlantico evoca i due socialismi soltanto teorizzati da Francois Mitterrand: l’uno solidale e l’altro creatore di avanzamento sociale. Le politiche redistributive tramite la leva fiscale contro le rendite, cui fa riferimento anche Thomas Piketty ne Il Capitale nel XXI secolo, possono dunque risultare complementari alle policy post-keynesiane dei “gufi del deficit” che sussurrano a Obama e alla Grecia.

Left Avvenimenti, 28 febbraio 2015 

“La degenerazione morale e culturale della sinistra”. Intervista al Corriere del Ticino

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«I panni sporchi della sinistra. I segreti di Napolitano e gli affari del Pd». Un libro-inchiesta di Stefano Santachiara, corrispondente de «il Fatto Quotidiano», e di Ferruccio Pinotti, giornalista del Corriere della Sera, nel quale emerge una sinistra che ruba, inquina e specula. Abbiamo rivolto alcune domande a Stefano Santachiara.

Nel vostro libro rimproverate a Giorgio Napolitano di essere intervenuto nella vita politica italiana ben oltre i limiti fissati dalla Costituzione. Nel caso della mancata nomina del nuovo capo dello Stato da parte del Parlamento, Napolitano non ha mostrato senso di responsabilità mettendosi a disposizione per un altro mandato?

«Non giudichiamo le intenzioni di Napolitano ma alcune prassi irrituali. Dopo le dimissioni di Berlusconi il capo dello Stato ha persuaso destra e sinistra a sostenere il tecnocrate Monti; con il pareggio elettorale dell’anno scorso ha inventato una sorta di pre-incarico collettivo, delegando a dieci saggi la stesura di una bozza di riforme istituzionali che creasse le condizioni per le ampie intese. Napolitano ha accettato il secondo mandato per l’assenza di un candidato unitario al sesto scrutinio. Si sarebbe potuto proseguire come avvenuto in passato (il socialdemocratico Giuseppe Saragat nel 1964 fu eletto alla 21.esima votazione), con nuovi candidati opposti al costituzionalista Stefano Rodotà indicato dal M5S».

Matteo Renzi vuole rappresentare il nuovo che avanza, ma così nuovo, considerati gli anni di militanza politica anche in altri schieramenti, non è. Un più rapido ricambio della classe politica potrebbe portare dei benefici al Paese?

«È il punto cruciale. Renzi è giovane anagraficamente ma neppure le moderne tecniche di comunicazione possono celare il suo tatticismo doroteo. Vedremo se manderà in pensione i dirigenti ex comunisti e democristiani che sono in politica da un trentennio benchè corresponsabili di una vera e propria degenerazione morale: accordi occulti con l’avversario Berlusconi, corruzione e inquinamento, commistione tra pubblico e privato, partito e banche. È come se la sinistra avesse sacrificato la Weltanschauung sull’altare del potere».

Visto quanto avvenuto in altri Paesi europei, si può dire che la metamorfosi della sinistra rappresenti un percorso obbligato. In cosa si differenzia il percorso compiuto dalla sinistra italiana, rispetto alle socialdemocrazie europee?

«Le socialdemocrazie europee hanno subìto l’influenza del liberismo e i dogmi dell’austerity. A differenza dell’Italia, però, la Francia ha sforato unilateralmente i vincoli UE sul rapporto deficit/PIL e nessuna nazione ha privatizzato reti strategiche. La subalternità culturale della sinistra italiana si desume anche dal silenzio sepolcrale che cala su iniziative come il referendum 1:12 sui salari dei manager tenutosi in Svizzera».

Mentre si discute di riforma elettorale, diversi politici italiani tessono le lodi del bipolarismo. Ma un sistema di voto che favorisca il bipolarismo riuscirà a unire la sinistra italiana che non solo ha visto a più riprese SEL e PD su posizioni distinte, ma anche un PD diviso al suo interno?

«Le divisioni sono talmente profonde che il PD non si è iscritto al PSE. SEL è un partito in crisi, il segretario Vendola ha perso appeal per alcuni scandali scoppiati nella regione di cui è presidente, la Puglia, dove le nomine della Sanità pubblica erano ripartite secondo logiche clientelari».

Enrico Letta e Matteo Renzi, posizioni diverse in uno stesso partito. Se il tandem si romperà sarà la fine di quella sinistra poco esaltante che emerge dal vostro libro?

«Letta è paragonato ad Andreotti per le capacità mediatorie e il ruolo di parafulmine rispetto alla pressione fiscale e ai tagli pubblici; Renzi può continuare a criticare l’immobilismo del Governo e a lanciare proposte come il job act. Eppure le sintonie sono molte: premier e segretario PD provengono dalla tradizione democristiana, sono liberisti e in rapporto con la galassia berlusconiana. Per queste ragioni, malgrado il dualismo alimentato dai media, ritengo poco probabile uno scontro che potrebbe provocare l’implosione del PD».

(Osvaldo Migotto)

Link all’articolo del Corriere del Ticino

Il libro “I panni sporchi della sinistra”: intervista di Affaritaliani

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Dalle amicizie pericolose di Bersani a quelle di D’Alema, dalle innovazioni ambigue di Renzi alle ombre dell’Ilva su Vendola. Fino al “nuovo compromesso storico” di Enrico Letta e ai segreti di Giorgio Napolitano. Non risparmia nessuno “I panni sporchi della sinistra”, il libro di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara (edito da Chiarelettere”) che mette a nudo le magagne del centrosinistra. Un lavoro importante e “lungo due anni”, come ha spiegato Santachiara intervistato da Affaritaliani.it, nel quale i due autori raccolgono e analizzano una serie di inchieste giudiziarie che riguardano, a vario titolo, il mondo della sinistra. Dalla galassia Bersani di Penati, Pronzato e Veronesi alla vicenda di Flavio Fasano, referente di D’Alema invischiato in una storia di mafia. Dallo scandalo Ilva al caso Unipol, passando per i trasferimenti di due magistrate, Clementina Forleo e Desirée Digeronimo (intervistata lo scorso settembre da Affari), che avevano indagato sulle responsabilità di importanti esponenti politici di sinistra. Pinotti e Santachiara ricostruiscono con dovizia di particolari tutta una serie di vicende, grandi e piccole, note e sconosciute, che offrono un ritratto impietoso di una sinistra che ha subìto “una mutazione genetica”. Il libro si apre con un esplosivo capitolo su Giorgio Napolitano, del quale vengono indicati i rapporti (o presunti tali) con Berlusconi, la massoneria, la Cia e i poteri atlantici. Un capitolo del quale Affari pubblica un estratto e che certamente farà molto discutere.

Stefano Santachiara, com’è nato il libro “I panni sporchi della sinistra”?

Mi sono occupato a lungo di cronaca giudiziaria per L’Informazione, un giornale emiliano, e tuttora come corrispondente del Fatto Quotidiano. E’ così che mi sono imbattuto in casi di malaffare, speculazioni edilizie, tangenti mascherate da reti di favori incrociati, rapporti con la criminalità organizzata. Spesso in queste vicende era coinvolto il centrosinistra. A Serramazzoni, in provincia di Modena, ho raccontato le prime contiguità acclarate tra ‘ndrangheta e Pd al nord, proprio nell’Emilia “rossa”. Quando L’Informazione ha chiuso i battenti nel febbraio 2012 ho sentito Ferruccio Pinotti e insieme abbiamo deciso di realizzare un libro-inchiesta: oltre ai casi giudiziari che riteniamo cruciali, abbiamo scavato sui centri nevralgici del “Potere democratico”, studiato documenti impolverati e inediti, raccolto nuove testimonianze. Man mano che si componeva il mosaico abbiamo effettuato collegamenti che ci consentono di analizzare la mutazione antropologica, etica e culturale, del partito erede del Pci di Berlinguer.

Il libro si apre con una serie di frasi di leader del Pd. Frasi che fino ad alcuni anni fa sembravano possibili da attribuire solo a politici del centrodestra. In che modo si è venuta a creare questa mutazione da voi definita “genetica”?

Questa mutazione è evidente, la si evince da molti aspetti a partire dalle politiche economiche. Ormai il Pd, sia nella classe dirigente che si perpetua da un ventennio sia nel nuovismo di Renzi, ha la stella polare più vicino al mondo della finanza che non a quello dei lavoratori. La sinistra moderna, non soltanto per la fusione con gli ex democristiani, ha cambiato visione di società mettendo in soffitta le prospettive del socialismo europeo e anche quelle keynesiane: per sommi capi possiamo ricordare che ha privatizzato reti strategiche nazionali, aperto al precariato con la legge Treu, ha appoggiato guerre della Nato, non si è prodigata per estendere i diritti civili, ha finanziato le scuole private invece di rilanciare l’istruzione pubblica e riportare la cultura (senza scomodare l’egemonia di gramsciana memoria) al centro dell’azione politica, infine si è allineata alla “dottrina” dell’ austerity imposta dall’Europa dei tecnocrati. In questo contesto ha sdoganato comportamenti come i conflitti d’interesse– anche propri, non soltanto quello noto di Berlusconi – e le opache relazioni con il potere economico e bancario tradendo i principi morali e di giustizia sociale che avevano animato la sinistra del passato.

La cosiddetta superiorità morale della sinistra non esiste più?

Sulla base delle inchieste giornalistiche condotte in questi anni e del quadro organico che abbiamo assemblato ci siamo persuasi che, nei fatti, questa diversità non esiste più.

La struttura del vostro libro sembra suggerire che il padre di questa mutazione della sinistra sia Giorgio Napolitano. È così?

Napolitano è un garante dei poteri forti. È il comunista borghese collaterale al Psi di Craxi e favorevole, già negli anni Ottanta, ai rapporti con Berlusconi. Trovo significativa una sua frase, pronunciata quando si insediò al ministro degli Interni nel primo governo di centrosinistra della Seconda Repubblica, nel 1996. “Non sono venuto qui per aprire gli armadi del Viminale”, disse Napolitano facendo intendere di non voler indagare sui tanti segreti italiani irrisolti. Una dichiarazione che è tutta un programma.

Nel libro viene citata tra l’altro una fonte anonima che sostiene l’appartenenza di Napolitano alla massoneria…

L’appartenenza di Napolitano alla massoneria non è provata. E’ l’opinione della nostra fonte, noto avvocato figlio di un esponente del Pci, il quale riconduce le famiglie Amendola e Napolitano, interpreti della corrente di pensiero partenopea “comunista e liberale”, alla massoneria atlantica. Anche l’ex gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Giuliano Di Bernardo, ipotizza per il presidente della Repubblica l’affiliazione ad ambienti massonici atlantici. Ma siamo nell’ambito delle opinioni. E’ invece emerso da un documento datato 1974, l’Executive Intelligence Review, che Giorgio Amendola, il mentore di Napolitano, era legato alla Cia. Napolitano fu il primo dirigente comunista ad essere invitato negli Stati Uniti. Andò in visita negli Usa al posto di Berlinguer, a tenere confererenze nelle università più prestigiose: proprio nei giorni del rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Un episodio che chiarisce quanto Napolitano fosse, sino da allora, il più affidabile per i poteri atlantici e che spiega almeno in parte la sua ascesa.

Insomma, Napolitano grimaldello degli Usa per portare il Pci a posizioni più allineate al potere atlantico?

Napolitano ha saputo muoversi perfettamente. A livello pubblico e ufficiale è sempre stato fedele al partito, sostenendo la causa di Togliatti persino nella difesa dell’invasione sovietica di Budapest nel 1956, poi come “ministro degli Esteri” del Pci. In maniera sommersa ha coltivato relazioni dall’altra parte della barricata, accreditandosi a più livelli di potere, italiani e internazionali.

Alla luce di quello che scrivete nel libro sui rapporti tra Napolitano e Berlusconi ritieni credibile che tra i due ci fosse stato un accordo su un qualche tipo di salvacondotto giudiziario per il leader del centrodestra?

I rapporti tra Berlusconi e Napolitano vengono da lontano,dai tempi della Milano da bere, quando la corrente migliorista del Pci spingeva per lo spostamento del baricentro dalle posizioni di Berlinguer a quelle di Craxi. Il rampante Berlusconi finanziava il settimanale della corrente migliorista, Il Moderno. Negli anni Napolitano si è confermato uomo del dialogo nei confronti di Berlusconi, contro il quale non ha mai espresso posizioni fortemente critiche. Ha promulgato senza rinvio lodi e leggi ad personam che sono stati poi bocciati dalla Corte Costituzionale, in queste settimane ha parlato di amnistia proprio dopo la condanna definitiva di Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset.

Nel libro parlate anche delle magagne di tutti gli altri attuali leader della sinistra. In particolare delle amicizie sbagliate, o quantomeno pericolose, di Bersani e D’Alema. Per quanto riguarda i rapporti di forza sembra venir fuori che D’Alema è la serie A e Bersani è la serie B. E’ così?

La frase su serie A e serie B è riferita a una fase del Penati gate. A un certo punto Di Caterina, prima finanziatore del partito e poi teste d’accusa nel processo a Penati, fa riferimento a un affare immobiliare senza rilievo penale. Un affare che vorrebbe Di Caterina ma che si sblocca solo quando palesa il proprio interessamento la società Milano Pace del salentino Roberto De Santis, imprenditore che si autodefinisce “fratello minore di D’Alema”. La galassia dei dalemiani è molto composita e ben presente anche nel campo degli affari. Nel libro parliamo anche della vicenda di Flavio Fasano, dimenticata dai quotidiani nazionali. Fasano era il referente di D’Alema nel quartier generale di Gallipoli: da sindaco gli ha organizzato regate e incontri decisivi come il pranzo con l’allora segretario del Ppi Rocco Buttiglione che nel 1994 creò le condizioni per il ribaltone del governo Berlusconi poi affossato dalla Lega di Bossi. Un uomo di fiducia, insomma. Ecco, nel 2008 si è scoperto che Fasano aveva rapporti con Rosario Padovano, un boss della Sacra Corona Unita di cui era stato avvocato anni addietro. Da una telefonata intercettata emerge che Fasano gli dispensava consigli pochi giorni dopo che Padovano aveva fatto uccidere il fratello. Non bisogna esagerare definendo Fasano come il “Dell’Utri di D’Alema” però la vicinanza di un suo fedelissimo ad un capomafia è un fatto poco noto…

Nel libro raccontate le vicende di due magistrate, Clementina Forleo e Desirée Digeronimo (vedi l’intervista di Affaritaliani.it al pm Digeronimo, ndr). Entrambe, dopo aver lambito D’Alema e Vendola con le loro inchieste su Unipol e sulla Sanitopoli pugliese, sono state trasferite per “incompatibilità ambientale”. Questo significa che in alcune procure chi indaga su leader politici di sinistra viene isolato e punito?

Di certo vi è stata una degenerazione, mi riferisco al peso improprio che le correnti della magistratura hanno assunto in seno ad Anm e Csm, che in alcuni casi hanno trasferito, punito e isolato i magistrati non allineati. Se da un lato si è manifestato un atteggiamento demeritocratico e doppiopesista dall’altro però non si può affermare come fa Berlusconi che siano tutte toghe rosse o che la magistratura sia eterodiretta dalla politica. Preferisco restare ai due casi specifici. Quando il Tar ha annullato il provvedimento di trasferimento della Forleo a Cremona deciso dal Csm, l’Anm ha criticato la sentenza. Eppure il sindacato delle toghe, ogni volta che Berlusconi attacca i giudici, ribadisce giustamente che le sentenze vanno rispettate. Nel procedimento sulla scalata di Unipol a Bnl D’Alema e Latorre potevano essere indagati per concorso in aggiotaggio, ma nonostante le indicazioni del gip Forleo sulla base delle loro scottanti telefonate con Consorte i pm di Milano non lo hanno fatto… Quanto al secondo caso, il sostituto procuratore di Bari Digeronimo – che ha scoperto il marcio di un sistema sanitario regionale piegato a interessi partitici e affaristici – è stata attaccata da Vendola pubblicamente, in stile berlusconiano, senza ricevere appoggio alcuno. Pochi mesi fa è finita nel mirino del Csm per aver segnalato insieme al collega Francesco Bretone i rapporti di amicizia tra la sorella di Vendola e Susanna De Felice, cioè il gup che ha assolto il governatore della Puglia nel processo relativo alla nomina di un direttore sanitario grazie alla riapertura dei termini del concorso. Il Csm ha ottenuto il trasferimento della Digeronimo accusandola di conflittualità con i colleghi, la stessa accusa mossa a suo tempo alla Forleo: condizioni fisiologiche in ogni ufficio e slegate dall’attività giurisdizionale.

Al di là del caso di Serramazzoni, sembra che l’interesse del Pd riguardo i temi dell’antimafia sia piuttosto basso. È così?

È così e la prova la si è avuta nella scelta dei candidati per le elezioni del 2013. In Calabria sono state escluse sindache antimafia come Caterina Girasole, Elisabetta Tripodi e Maria Carmela Lanzetta. In Emilia è stato dimenticato Roberto Adani, ripetutamente minacciato per aver denunciato presenze mafiose e colletti sporchi. Nando Dalla Chiesa non è stato più ricandidato dal 2006. Malgrado i proclami elettorali c’è scarsa attenzione su questi temi. In questi giorni si parla tanto dei “signori delle tessere” e sembra quasi che ci sia una guerra tra loro e i maggiorenti del Pd. Ma non è così: i “signori delle tessere” sono stati candidati dai leader nei listini bloccati per una precisa strategia che ha invece escluso chi ha rischiato la pelle combattendo le cosche.

Una volta si pensava che le mafie fossero politicamente orientate a destra. Oggi guardano anche a sinistra?

Anche se la maggioranza di casi riguarda ancora il centrodestra, come abbiamo visto si registrano le prime collusioni mafiose dei democratici.

(intervista di Lorenzo Lamperti)

Link all’intervista di Affaritaliani