Ritorno all’antico: scrittura e telefonate

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Grazie a tutti gli attori, i tecnici, i collaboratori, i cinema, le biblioteche, le librerie, i lettori e gli spettatori, insomma tutti quanti per le stupende serate de ‘Il pastore e la strega’! Dall’isola d’Elba a Piombino, da Piozzano e Bobbio a Fabbrico, da Modena a Bologna, da Cavriago a Quistello, e ringrazio anticipatamente Boretto, Cesena, Castelfranco, Fontanaluccia, Mantova, Faenza e Ravenna, Traversetolo, Porretta, Roma, Padova, Venezia e Treviso, Nizza Monferrato, Asti, Firenze, Livorno e chi arriverà. Un ringraziamento anche ai colleghi giornalisti per gli articoli dedicati al film (e perdonate se dimentico qualcuno): Full d’Assi, Elbareport, Fatto Quotidiano, Corriere, La Verità, Pennainmovimento, Valdicornia news, Tirreno, Nazione, Corriere Etrusco, Piacenza Sera, La Libertà, La Notizia, VivoModena, Resto del Carlino, Reggio online, Gazzetta di Reggio, Voce di Mantova.
Chi desidera può contattarmi al 3534121670. Mi scuso per le tante mancate risposte via mail e social, ma purtroppo sono troppe le domande per le condizioni dei miei occhi, in particolare il sinistro aggiunge a miopia e astigmatismo una fastidiosa ipertensione oculare, dunque d’accordo con il dottore oculista rinuncerò quasi completamente all’uso degli schermi piccoli, compresa la posta elettronica ad eccezione di messaggi essenziali. Sarà un ritorno all’antico, all’uso della carta per scrivere e del telefono per conversare, abitudini preziose soprattutto nella vita privata: è una cosa bellissima parlare a voce A CHI vuoi bene.

Il pastore e la strega, intervista al Corriere

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Applaudito alla finalissima del festival del cinema israeliano Near Nazareth, Il pastore e la strega conquista il primo premio al festival Tharangai in India e approda nelle sale. Siamo andati a trovare il creatore di questa pellicola indipendente che sta per sfidare al botteghino anche i colossi di Hollywood e ha già rifiutato, per la distribuzione, piattaforme per abbonati di tendenza. “Il cinema si respira nelle sale, non sui tablet” è la frase con cui Stefano Santachiara, già giornalista d’inchiesta e scrittore, ci accoglie nella casa elbana che usa come base per l’ispirazione e il lavoro. E’ una residenza Montauti, discendenti del primo governatore dell’isola inviato dai Medici di Firenze. “Ma questa non è la napoleonica Portoferraio, è Marina di Campo, una perla immersa nel verde”.

Il pastore e la strega esce nei cinema d’essai ma anche nelle multisale accanto ai big italiani e americani, una sfida da far tremare i polsi…
Più che i numeri mi interessano le sensazioni degli spettatori. Se si saranno divertiti, se all’uscita della sala rifletteranno sul film.
Una commedia originale, definita “ecologista” dal Fatto Quotidiano, certamente farà discutere per i temi incrociati che affronta, nello stile dei tuoi libri così diversi dal mainstream. Ma qual è la morale del film?
Non saprei… Non c’è un messaggio, un consiglio diretto. Sicuramente emerge il rapporto dell’uomo con la natura, per ciascuno molto diverso, e poi ci sono le scelte dei personaggi, quelle facili della ricchezza e del potere, quelle più complicate perchè sono scelte di libertà.
Perchè l’Elba?
(Si gira verso il mare) E’ un’isola particolare, un’Italia in miniatura. Ci sono la storia e la bellezza nelle più varie forme, i manoscritti negli archivi e le cornici dei Bonaparte nelle antiche residenze, la montagna fitta di alberi e le facciate di granito, le spiagge di sabbia, ciottoli, oppure le rocce, ci sono i profumi e i colori del mare sempre diversi come le piante e i fiori. E tanti animali d’acqua, di terra e di aria. In questi luoghi tanti si sono ispirati… E poi c’è una ragione professionale fondamentale per il film: la grande collaborazione dei tecnici locali e degli attori di teatro, attivi sull’isola da tempo e venuti per passione, un gruppo affiatato e preparato.
Florencia Perez da Rold, per alcuni la rivelazione del film, è argentina. L’editor Francesco Guida dirige una web tv nel Cilento.
Sì, quella con Francesco è un’unione, e un’amicizia, che va avanti dal primo film, Corpo, altra bellissima esperienza.
Un thiller psicologico complesso, Corpo, con una serie di limiti tecnici, comunque selezionato dall’università del Connecticut per i gender studies. Perchè questi due film, apprezzati all’estero, non hanno vinto festival italiani e non hanno trovato produttori e distributori?
Corpo non c’è riuscito, Il pastore e la strega invece ha preferito avanti in modo indipendente malgrado l’interesse della casa di produzione Palomar e ha scelto di distribuire in autonomia, una scelta insolita ma dichiarata legittima da Siae e Ministero ai Beni culturali.
D’accordo, ma anche la prima sceneggiatura sulla vita di Lou Salomè, rappresentata da artisti inglesi nel Cheshire, è stata di fatto censurata in Italia, persino due compagnie teatrali che avevano concordato di portarla in scena, hanno fatto retromarcia. Perchè?
(Sorride) Un amico magistrato anni fa citò i Vangeli per spiegare una dinamica simile: “Nemo propheta in patria”.
Non sarà anche per i vent’anni di inchieste giornalistiche sul malaffare dei politici, che ti hanno intentato una causa da 1 milione di euro per la puntata di Report sul primo caso di rapporti fra mafia e Pd al nord, il bestseller I panni sporchi della sinistra, o le indagini contro la polizia deviata coinvolta nel delitto Mascaro?
Forse, ma si va avanti.
La gioia per i due festival del cinema: maggiore per Israele o per l’India, paese dei BRICS in grande crescita?
Tutte e due belle soddisfazioni, sono stati momenti di arricchimento per il confronto culturale, per i film che abbiamo potuto vedere, realizzati in tanti paesi diversi, abbiamo conosciuto i punti di vista dei registi e le loro storie.
Non hai risposto però.
Fra i due festival? Israele, meraviglia. Un unico neo…
Quale?
Non essere andato per la fobia dell’aereo.
Una mancanza per chi fa questo mestiere.
Lo so.
A proposito di difetti, parliamo dei ‘cattivi’ de Il pastore e la strega. L’affarista milanese è cinico, il sindaco toscano superficiale e superstizioso come il furbo geometra napoletano: non rischiano di cadere nel clichè?
Sono personaggi in chiaro scuro, non etichettabili superficialmente. Ma forse hai ragione, ho esagerato a enfatizzare alcuni aspetti, l’ho fatto per renderli divertenti e capaci di far riflettere.
Effettivamente alcune gag sono spassose. Quello che volevo sottolineare però è la somiglianza di questi ‘cattivi’ con alcuni soggetti che hai raccontato nei tuoi articoli… Perchè sei passato dal giornalismo al cinema?
Per amore.
Ti sei fidanzato con un’attrice?
No.
Capita spesso nel mondo del cinema…
Non mi è capitato.
In che senso allora hai cominciato a fare cinema per amore?
Nel senso che sei anni fa, sognando di incontrare di nuovo la donna che… che sentivo essere la mia metà, ho iniziato a scrivere sceneggiature… Hai presente il gerundio del titolo della commedia su Lou Salomè in inglese?
Credo di aver capito. Vittorio Macioce de Il Giornale ha scritto che la tua vita è da romanzo. Per la vicenda dell’amica Procuratrice della Repubblica che non accetta il rifiuto e allora, assieme a politici, ti fa diffamare con fake news fino all’Albione?
(Resta in silenzio)
Sono cose già note nell’ambiente giornalistico: Luna, Lupo, Stella…
Sono persone potenti… Hanno sporcato una poesia pura, un rapporto gioioso, ma la colpa è stata anche mia che per proteggere Stella ho recitato una parte, allontanandola.
Non deve essere stato facile.
Ci sono cose peggiori. In generale mi sento di consigliare di restare sempre se stessi, ignorando chi ci vuole male, lottando senza timore per le cause giuste, impegnandosi nella vita privata per le persone che contano, nell’amicizia vera, che ha un valore altissimo e profondo.
Rivelaci almeno come è finita tra te e Stella…
(Da un carillon tira fuori un anello) Come vedi è ancora qui.
C’è chi scrive delle proprie delusioni sentimentali. Magari non un romanzo… un film?
No.
Va bene, torniamo a Il pastore e la strega. Emozione per la prima di sabato prossimo?
Un po’ sì.
La storica dell’arte Elisabetta Landi ha affermato che le donne delle tue storie sono forti, superano gli ostacoli con agilità e sovrastano gli uomini. Piuttosto rare… Ti sei ispirato a persone reali?
Sì, il destino mi ha dato in sorte di conoscere donne meravigliosamente rare.
Nel film suscita curiosità il personaggio della strega, sembrerebbe bifronte: la calma della virtù, l’astuzia della fattucchiera…
Stai dicendo tutto tu (ride).
Tornerai a concedere interviste o ci vorranno altri 6 anni?
Tendenzialmente no, sono di carattere timido e poi parlare del proprio film o del proprio libro rischia di svelare troppo.
Chiudiamo con un’immagine. Se potessi dipingere questa sfida al botteghino con le grandi produzioni e gli attori famosi?
I visi delle persone in sala.

(Gabriele Guastella)

Romanzo ‘Il pastore e la strega’, anticipazione

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Buongiorno a tutti, ricordate l’avventura di Emanuele, fuggito dall’alienante sfruttamento lavorativo sognando la montagna? In attesa della prima nazionale del film al cinema Flamingo di Capoliveri sabato 7 ottobre, ecco la seconda anticipazione del romanzo!


… Silvio gettò l’ancora e salutò senza ricevere risposta da Ada, pure orientata verso il mare. Una folata fece svolazzare via il foulard di seta, che finì a galleggiare nell’acqua, troppo lontano dal molo per essere recuperato.

Emanuele aveva esaudito il proprio desiderio. Si trovava esattamente in cima alla montagna. Intorno a lui e ad un signore anziano pascolavano alcune capre, le cui sagome si confondevano nella nebbia di marzo, solitamente fitta a quell’altitudine. Lele fremeva dalla voglia di giocare con loro, ma era molto concentrato ad ascoltare i discorsi dell’interlocutore. Era salito fin sulla vetta, per la prima volta, alla guida di una vecchia lambretta prestatagli da un amico e aveva spalancato la bocca innanzi al panorama, rallentando ad ogni tornante per assaporare la visuale delle facciate di granito e delle rocce millenarie a forma di animali, o per esplorare visivamente i colori del bosco e del golfo. Non si curava minimamente del lavoro al capannone, né di dover giustificare in famiglia quella sua prolungata assenza. Ascoltava e annuiva, come un piccolo apprendista desideroso di imparare il segreto dell’artigiano. “Oramai sono vecchio. Non ce la faccio più a portarle qui, mi dispiacerebbe lasciarle…” gli confidò il signore, che evidentemente era l’ultimo pastore rimasto sull’isola. Emanuele ebbe un’illuminazione. Doveva essere lui a raccogliere il testimone. La nebbia che avvolgeva l’estremità del crinale ormai inghiottiva sia i due uomini sia gli animali. “Mi lasci le chiavi della stalla. Domani mattina sarò qui al suo posto”. Il signore lo sconsigliò con paterna premura: “Questa vita è dura. Non ci sono ferie né momenti di riposo. Si segue il ritmo biologico delle capre e della natura”. “Ho già deciso. Sarà la mia vita”. L’anziano pastore inumidì gli occhi e gli diede le chiavi. “Grazie, grazie mille!”. Non ottenne risposta. Il suo benefattore iniziò a incamminarsi per il sentiero perdendosi nel grigiore. Ad Emanuele non restava che sistemare le capre e salutarle per tornare in montagna l’indomani prima dell’alba. “Belle, ora ci sono io con voi”. Esse parvero dargli un benvenuto collettivo, circondandolo. “Ecco, da brave, entrate qui… Ma… che cosa…?”. Un raggio di sole era passato attraverso la nebbia, stava avvolgendo col suo nitore le capre. Saranno state almeno trenta. Gli sorridevano beate. Lele chiuse la stalla e saltò in sella alla lambretta con la gioia nel cuore. Forse non aveva mai provato un piacere così intenso, scendeva a velocità sostenuta, non senza qualche rischio, tendendo l’orecchio al grande torrente. Lungo una curva il terreno scivoloso lo fece sbandare ma lui continuò allo stesso ritmo, guardando in alto, ovvero seguendo la strada a memoria e il fruscio dell’acqua. Respirava a pieni polmoni l’atmosfera e i pensieri inconsci gli donarono due sostantivi da comporre in una sola parola: intensimmensità.

Nel frattempo Ada, allontanatasi dal molo, curiosava fra le botteghe del centro. Un po’ infreddolita per le spalle su cui soffiava la tramontana, entrò in un negozio di abbigliamento. “Buonasera, mi dica”, chiese gentilmente la titolare. Ada aveva già operato la scelta: “Quel poncho lì fuori è di cashmere?”. La proprietaria confermò e si rese disponibile a farglielo provare. Una volta indossato, Ada strinse fra le mani un lembo del maglioncino. Chissà per quale ragione, il profumo del poncho la trasferì idealmente in montagna, in quello stato di grazia avvertito alla sommità, ma questa volta con un richiamo visivo chiaro, la morbidezza del capo di abbigliamento le infondeva nel cuore una speranza, chiuse gli occhi per trasognare la delicatezza di Lele quando l’aveva sfiorata con la guancia. Alla negoziante che attendeva una risposta, Ada disse soltanto: “Lo voglio”.

Lele sentiva ancora l’adrenalina dell’incontro con il pastore e della scelta di vita compiuta di getto. Quando giunse alla foce del grande fiume buttò a terra la lambretta, levò le scarpe e corse a piedi nudi sulla spiaggia. Nel silenzio generale, cullato solo dal lento fruscio del fiume che si gettava nel mare, gli parve di scorgere, in lontananza nella nebbia, una figura antropomorfa in sella ad una motocicletta o a qualcosa di simile. Via via che si avvicinava, a passo piuttosto lento, quella sagoma assunse le sembianze di una ragazza dai capelli neri e fluenti. Non cavalcava una moto ma un bellissimo purosangue. Man mano che s’approssimava Emanuele fu rapito dal suo sguardo. Gli occhi profondi sorridevano smaglianti sotto un velo di malinconia, e restavano incollati ai suoi. Tutt’altro però uscì spontaneamente dalla sua bocca: “Che bella cavalla!”

Sofia: “Sì, è una femmina, si chiama Ruby”.

Emanuele, accarezzandola: “Bella lei”.

Sofia: “Ci sai fare coi cavalli”.

Emanuele: “No! Mai avuti. Però…”.

Sofia: “Però?”.

Emanuele: “E niente. In mezzo agli animali sto bene”.

Sofia: “Anch’o”.

Emanuele: “Devi sapere che oggi ho preso la decisione della mia vita!”.

Sofia, scendendo da cavallo. “Dai!”

Emanuele: “Sì, ho lasciato il lavoro sotto padrone dopo tanti anni e ho comperato trenta capre!”.

Sofia: “Wow!”.

Emanuele: “Le vuoi vedere?”.

Sofia: “Adesso devo rientrare al maneggio e poi mi aspettano a casa”.

Emanuele, pensando ad un rifiuto, rispose mestamente: “Ok…”

Sofia: “Domani?”.

Emanuele: “Sì, domani mattina prestissimo però! Le capre si svegliano all’alba e io voglio conoscerle tutte, una per una…”.

Sofia: “Devi anche scegliere i loro nomi?”.

Emanuele: “Sì sì li scegliamo insieme, ti va?”.

Sofia fece cenno di sì gioiosa.

Emanuele: “E tu… come ti chiami?”.

Sofia: “Sofia”.

(…) Il giallo intenso e spavaldo delle ginestre, fiorite sulle rocce del crinale, accolse a braccia aperte Ada. Erano trascorsi due mesi dalla sua prima venuta sull’isola, protrattasi per quasi una settimana nonostante le rimostranze del marito. Ora quel colore splendente al sole era il preludio dell’estate e lei sentiva un gorgogliare d’emozioni. Silvio aveva parcheggiato una Maserati presa a nolo vicino al Municipio, nel centro del paese. Mentre si recava all’edicola per acquistare un quotidiano, Ada si accorse di un laboratorio artigianale specializzato nella vendita di formaggi di capra. Lo percepì dalla scritta: “Il formaggio di Lele”.

Ada: “Scusi signorina… Lele sta per Emanuele?”.

Sofia: “Sì, perchè?”

Ada: “E’ un ragazzo che prima faceva il fabbro?”


Sofia”:”Sì… ma…”.

Ada: “No, è che… io… sono un’amica”.

Sofia tenne a freno la gelosia che tracimava. Con Lele era stato un colpo di fulmine, non aveva mai dubitato di lui in quei due mesi di fidanzamento, si era gettata fra le sue braccia come mai le era capitato nella vita. “Non sono fatta per l’amore, forse il principe azzurro non esiste. Me ne sto bene qui, fra i miei cavalli al maneggio” era solita raccontarsi mentre spazzolava un purosangue o aiutava un cucciolo a compiere i primi movimenti. Sofia era cresciuta in una piccola fattoria, da genitori contadini. Grazie ai loro sforzi aveva potuto studiare, laureandosi in scienze biologiche, e al contempo era rimasta attaccata alla natura. Con gli animali si trovava a propria agio, del resto nella fattoria i suoi allevavano mucche, maiali e galline. Da bimba si era recata da sola ai bordi del maneggio dell’isola, non molto distante, lo stalliere le permise di vedere i pony riportandola presto alla fattoria. Sofia però non si dava per vinta e ritornava alla prima occasione dai suoi nuovi amici. Già, perchè a differenza degli altri bambini, quelli delle famiglie più abbienti che potevano trascorrere giornate intere dentro al maneggio, non si limitava a guardare i pony e ad accarezzarli su invito degli adulti: Sofia parlava ai cavalli, anche a quelli più grandi, spesso sussurrava nelle loro grandi orecchie in segno di complicità. Ogni volta, quando capiva che sarebbe stata riaccompagnata a casa, si perdeva negli occhioni teneri di un cavallo per fargli una promessa. Le promesse col tempo diventarono piccole carote, braccialetti di fiorellini da lei creati con paziente talento. Con gli anni il rapporto che instaurò con i cavalli si rivelò profondo, quasi simbiotico. Durante gli studi, quando cominciò a svolgere piccole mansioni al maneggio, conobbe Ruby, la purosangue con cui stava trottando in spiaggia il giorno che incontrò Lele. Ruby appena sentiva i passi di Sofia in lontananza, nitriva felice; dopo il lavoro sul campo alzava gli arti anteriori per chiedere il premio: le carote; quando invece capiva che lei stava per andarsene, la sera, muoveva la coda e non smetteva fintantoché Sofia non tornava da lei per un ultimo tenero saluto con… promessa. Sì, Ruby percepiva le sue emozioni più recondite: “Forse”, ripensava ora Sofia, “si è innamorata lei, prima di me, di Emanuele, al primo sguardo”.

La scena del film, scelta dal Fatto Quotidiano per l’articolo dedicato alla finalissima del Near Nazareth film festival, in cui Lele (Alex Ferrini) incontra Sofia (Lara Elena Deiana) che sta cavalcando Ruby.

Il pastore e la strega al NNFest, articoli di stampa

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L’articolo del Fatto Quotidiano in edicola alcuni giorni fa

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2023/07/26/cinema-il-pastore-e-la-strega-finalista-al-festival-israeliano/7241890/

E qui l’articolo del magazine Full d’assi

https://www.fulldassi.it/il-nuovo-film-di-santachiara/

Chicca e Camilla

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Chicca e Camilla sono due micie che vivono nella stessa zona.

Se il gallo dei vicini le sveglia all’alba

Camilla: “Uffa, domani vado là a lo addento!”

Chicca: “Simpatico! Che bell’arietta fresca, alzarmi prima significa che avrò più tempo nella giornata! Se sarò stanca dormirò più tardi, al fresco di una siepe”

Se i doberman da caccia del vicino abbaiano fino alla siepe di separazione tutte e due scappano,

Camilla: “Che cattivi cagnacci, potessi essere il vostro padrone!”

Chicca: “Come siamo fortunate, siamo libere di andare ovunque vogliamo”

Se le lucertole si espongono un po’ troppo alla ricerca del sole

Camilla: “Ecco, anche se non ti mangio, ti uccido!”

Chicca: “Ti ho presa, ma complimenti per la tua velocità! Non ti pungo mai con le mie unghie, così potremo giocare anche domani!”

Se gli amici umani escono in giardino un giorno d’estate

Camilla piagnucola per avere cibo e poi se ne va

Chicca, sdraiata, muove il musino e sbadiglia se stava dormendo, poi si rotola su se stessa, infine socchiude gli occhi e li riapre come a dire: “Sono qui, ti voglio bene”

Quando il tempo è fresco Chicca, se ha fame, gusta particolarmente pesce fresco, se non ha fame salta sul tavolo di legno o attorno ad un albero e si fa le unghie, poi corre invitando gli umani a rincorrerla, se si sente molto allegra si arrampica istintivamente anche sul tetto della veranda in legno e poi non sa come fare per scendere. Le prime volte diffidava degli umani che cercavano di prenderla in braccio per farla scendere e miagolava, poi col tempo si è lasciata abbracciare e portare a terra.

Se gli umani innaffiano il giardino

Camilla se ne va offesa.

Chicca prima si nasconde dagli sprizzi d’acqua, poi si avvicina e torna a correre via ma restando ad osservare curiosa, contenta come ad ogni novità, che sia un nuovo mobile in cui intrufolarsi o una pianta da annusare.

Quando l’anziano che le aveva adottate per primo, trovandole nella casa disabitata poi abbattuta dalle gru del cantiere, faceva un giro in bicicletta per salutare mia nonna Ester davanti alle nuove case delle micie.

Camilla: “Ciao, ciao, sei tu ok”

Chicca: “Nonno! Ti faccio le fusa piano piano, spingendo con le zampe sulla pancia, perchè mi ricordi quando prendevo il latte dalla mia mamma. Grazie infinite per tutto”

Se un falco o una cornacchia rapace va in picchiata contro la piccola Dumbie (la migliore amica di Chicca, di pelo bianco e nero, chiamata così dai miei zii Giorgio e Roberta che la ospitano nella villetta adiacente, per le orecchie a sventola in riferimento al cartone Dumbo)

Camilla scappa terrorizzata e colpevolizza Dumbie: “Colpa tua e delle due orecchie a sventola!”

Chicca drizza le sue orecchie, corre come un ghepardo nella direzione dei versi di Dumbie e dello svolazzo della cornacchia, prende le botte ma salva l’amica, le lecca le ferite, anche la propria (un taglio superficiale), la veglia nei giorni seguenti.

Se qualcuno vieni a farci visita nel giardino o in soggiorno

Camilla se ne va : “Chi è che disturba?”

Chicca subito diffida e si allontana, soprattutto se al suono del campanello è associata una battuta nei suoi confronti, ma poi, quando vede che gli ospiti sono graditi nella casa: “Grazie, i complimenti fanno sempre piacere. Una carezzina sì, prendermi in braccio no però” dice sorridendo con la coda in su.

Se Dumbie vuole giocare in un momento inopportuno

Camilla le dà una zampata e prosegue quello che stava facendo

Chicca le fa capire che non è il momento, dopo però la raggiungerà per giocare. Le zampate saranno senza unghie, un po’ come quando guarda il viso dell’umano scrivente da vicino, lo punta con le orecchie abbassate con molta voglia di prenderlo ma poi muove la zampa lentamente, lo sfiora soltanto e lascia la zampa lì protesa, come per dargli la mano.

Se spuntano il riccio o la tartaruga

Camilla sbuffa: “Chi sono questa bestiacce? Perchè non le mandano via prima che rovinino la nostra erba?”

Chicca: “E tu chi sei? Vieni da un posto tanto lontano… Che bella storia quella che hai cominciato a raccontarmi, stiamocene qui insieme, al tramonto, sorseggiando da questo vasetto d’acqua piovana”.

Se le sorprende il temporale

Camilla: “Dannato tempaccio, una giornata sprecata”

Chicca: “I terreni si dissetano, che bel rumore questo ticchettio. Alla fine mi sembra di ricordare che a volte arrivi l’arcobaleno”

Se gli umani usano troppo lo smartphone

Camilla è indifferente: “Saranno cose importanti di lavoro”

Chicca se ne dispiace: “Perchè non fa una pausa per giocare o per fare quelle faccende qui intorno che mi diverto a osservare? Non mi garba quell’oggetto metallico, preferisco quando scrive sulla carta con la penna, infatti gliela bacio col nasino”

Se dall’oggetto metallico però esce una musica vivace come Madonna o romantica come ‘Sarà per te’

Camilla : “Preferivo il fruscio dei granellini del cibo”.

A Chicca piace: “E se qualcosa resta, sarà per te…”

Se rivedono dopo tanti mesi l’amico umano

Camilla “E dove sei stato tutto questo tempo? Va beh, fortunatamente non manca mai da mangiare”

Chicca socchiude gli occhi e li riapre.


Camilla non esiste. Chicca sì, la sua intelligenza sensibile potrebbe essere la stessa del film ‘Il lupo e il leone’ di Gilles de Maistre, o di ‘Un amore di cane’ di Aleksandr Domogarov, o quella degli umani che conservano la gioia di vivere.

Francesco Nuti il Poeta, e i tanti perché

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Stasera per la prima volta, su Dailymotion, ho guardato OcchioPinocchio, il film che la critica, i giornali, i produttori, insomma il sistema legato a doppio filo con la politica, ha usato a pretesto per estromettere Francesco Nuti, un genio che il pubblico adora e che lorsignori, molti di essi obtorto collo, avevano apprezzato, premiato, celebrato negli anni Ottanta e nei primi Novanta. L’ho visto per la prima volta, ed è singolare se penso che i film di Nuti hanno accompagnato la mia crescita, come un appuntamento fisso, imperdibile, di risate e di tenerezza: certo da piccolo riconobbi i telai della maglieria e mi divertivo con le giocate di biliardo in Madonna che silenzio c’è stasera e in Io, Chiara e lo Scuro ma non potevo cogliere le tante sfumature, così come le liriche profondità di Tutta colpa del paradiso, e anche da adolescente sfuggivano i significati intrinseci di Caruso Pascoski di padre polacco, Willy signori e vengo da lontano, Donne con le gonne e gli altri. Forse ho perduto OcchioPinocchio perché non lo hanno dato subito l’anno seguente in tv (cosa che accadeva per i grandi successi al botteghino) o forse semplicemente perché all’epoca cominciavo ad applicare alla mia esistenza proprio la curiosità vorace insita in quei film: i “perché” riecheggiavano sulle prime relazioni sentimentali, sui primi articoli da giornalista in una particolare realtà di paese, il distretto di Carpi e quello di Prato sono noti per il settore tessile abbigliamento. Anche Francesco Nuti da ragazzo viveva quel momento di curiosità e attesa, nel film mi rimase impresso il consiglio ricevuto da un personaggio naif: “O vinci al Totocalcio, o sposti una chiesa o vai in Perù”. A 19 anni (rispose in un’intervista) aveva scritto la sua canzone più simpatica e oggi famosa, ‘Puppe a pera’, immaginando la donna che sarebbe arrivata. Anche ‘Sarà per te’ , canzone poetica portata più tardi al festival di Sanremo, era una carezza futura.

Ma torniamo al 1994, a OcchioPinocchio, un film spartiacque per Nuti, da quel momento estromesso dagli spazi pubblici del cinema e della televisione. In nessun paese civile per la libera arte, la libera poesia, la libera cultura, sarebbe mai potuto accadere. Vediamolo allora, mi son detto, questo film stroncato all’unanimità dal sistema. Un importante critico, Paolo Mereghetti, scrisse addirittura “film mostruoso”. Se anche fosse stato inguardabile, in ogni caso, non sarebbe mai stato giustificabile il conseguente isolamento di Francesco Nuti. Forse Nanni Moretti non ha mai sbagliato un film? Certo che sì: nessuno si permetterebbe di cancellarlo.

OcchioPinocchio: premesso che non sono un critico e parlo da spettatore, trovo la storia bella e originale, ben studiata e interpretata, forse poco approfondita in alcuni aspetti ma – come si suol dire – avercene, nel panorama odierno poi. Un banchiere miliardario è vittima di un pessimo tiro del fratello, il quale gli rivela post mortem, alla lettura del testamento, l’esistenza di suo figlio, Pinocchio, e di averglielo tenuto nascosto fino ai quarant’anni in una casa di assistenza. Se Una poltrona per due, con la scommessa dei Duke sull’inversione delle vite del manager e del mendicante di colore per dimostrare l’influenza superiore della genetica o dell’ambiente, era una critica ridanciana ai razzisti di Wall Street, l’inizio di OcchioPinocchio fotografa meglio, e in modo più realistico, la condizione avida e cinica del capitalismo finanziario, non priva tuttavia di alcune fragilità umane derivanti dalla paternità. L’interpretazione di Francesco Nuti nei panni di un uomo “con ritardo nella crescita”, ad una prima impressione, è meno eccellente di Dustin Hoffman in Rain man, poiché Pinocchio oscilla tra momenti di estrema ingenuità, di emulazione o ripetizione a pappagallo, ad altri in cui sveste quel “ritardo” per ritornare il Nuti dallo sguardo profondo e dalla battuta folgorante. Se usciamo dallo stereotipo del soggetto con problemi psichici per immaginare una dimensione di luci e ombre, appunto realistica, l’alternanza degli stati diventa un valore aggiunto, spiegabile nel finale in cui Pinocchio svela qualità intellettive impreviste. La scena in cui Francesco Nuti si presenta in pubblico ai quadri dirigenti dell’impero finanziario del padre è beffardamente geniale: notando la differenza con l’ambiente in cui era stato per quarant’anni, dove aiutava persone anziane e povere, Pinocchio si complimenta con il parterre de rois per i vestiti puliti e le dentiere (altra nota personale che mi accompagna nel gioire della grazia di Nuti: pochi anni dopo il film scelsi, come obiettore al servizio militare, di prestare servizio civile presso la struttura protetta comunale per anziani di Carpi). II leitmotiv della giacca da restituire e del bacio per sfuggire all’arresto con Lucy, la ragazza incontrata per caso e sospettata di un omicidio, possono sembrare escamotage logori, ma acquisiscono un senso nel prosieguo della storia. Molto azzeccato anche il ritmo delle scene nella prima parte, eccellente la presentazione di Pinocchio con alternanza fra brevi monologhi di ospiti della casa di assistenza che illuminano la narrazione, musiche adatte e immagini suggestive dall’alto (il mix è un classico dei film di Nuti: in Caruso Paskoski era esilarante l’alternanza di pazienti pittoreschi e ossessivi, musiche ritmate ed espressioni facciali del dottore; piccola digressione per ricordare come Nuti sia stato una sorgente inesauribile di genialità, se il suo essere malin-comico è inimitabile, gli sketch dei Giancattivi e le stramberie paesane avviate da Madonna che silenzio c’è stasera sono stati moltiplicati negli anni a seguire dagli altri comici soprattutto toscani; la storia dell’amore tormentato di Caruso e Giulia, che si allontana per frequentare uno dei pazienti di Caruso ma poi lo ridesidera, sarà imitata da tanti: penso a film banali con lui-Giallini che psicanalizza l’altro-Gassman e alla dinamica della sofferenza di Troisi e del ritorno di Neri nel comunque ottimo Pensavo fosse amore invece era un calesse). Esilarante la scena del ristorante (il livello a mio avviso è quello sublime dell’impacciato Caruso che deve entrare di nascosto nella toilette delle donne per gli incontri clandestini con Giulia-Clarissa Burt, che nella vita è stata un amore grande per Francesco Nuti) nella quale Pinocchio chiede di poter finire la minestra del vicino di tavolo come faceva nella struttura protetta o semplicemente come si usa in famiglia, non meno originale della simulazione dell’orgasmo in Harry ti presento Sally o dei dialoghi fuori contesto di comparse nei film di Allen e Troisi. Le citazioni da Collodi non mancano, dal grillo prima di salire in elicottero alla balena, il capannone dove Lucy e Pinocchio fanno l’amore, fino alla surreale città-giostra, un paese dei balocchi dal sapore felliniano. Scene ben dirette quella nella centrale della polizia, dove il commissario, con la battuta “sono stati visti baciarsi”, chiude il crescendo d’ira del miliardario che praticamente comanda gli agenti di polizia, e la parte del road movie, anche se il genere non è la mia cup of tea: comunque breve e necessaria per il fluire degli avvenimenti e per creare l’affinità con la fuggitiva. Avrei desiderato vedere più scene di Pinocchio nell’ambiente dei miliardari per sviscenarne oltremodo le contraddizioni, il rischio di scadere nei luoghi comuni e nel facile applauso non sarebbe stato corso: Nuti è un creativo genuino e avrebbe reso ogni passaggio in modo orig-eniale. Non so quali siano i venti o più minuti tagliati da una produzione che, a quanto si legge, è stata molto travagliata: addirittura Francesco ha dovuto pagare di tasca propria per portare a termine il film. Non sono aspetti secondari, quando si valuta un lavoro bisogna tener conto delle risorse, del tempo a disposizione, delle lealtà delle collaborazioni. A me comunque la storia è piaciuta molto e il finale aperto, un coupe de theatre come da griffe dell’autore, valorizza ancor più i temi sociali, i momenti divertenti e di riflessione, l’approccio giusto – privo di preconcetti – nell’interpretazione del soggetto con ritardo nella crescita. Pinocchio non è un pezzo di legno che vuole entrare nella società contemporanea come nella fiaba di Collodi ma un eterno fanciullo, ingenuo ma dotato di intelligenza sensibile, capace di fingere una regressione psichica pur di restare fuori dalla peggior dimensione capitalistica, opulenta e artificiale, e di restare così com’è: altruista e ribelle. Il “perché” ribelle con cui Pinocchio risponde all’agente che ordina a lui e a Lucy di andarsene, ripetuto due volte, è il filo conduttore dei film di Francesco e della sua spontaneità genuina, sul set come nella vita e durante le rare interviste. “Perché” è l’espressione primigenia che impariamo da piccoli, è la volontà di sapere e di capire, resta in tutti coloro che mantengono la curiosità in ogni mestiere e ambito dell’esistenza: il perché delle dinamiche del lavoro, il perché dell’ingiustizia, il perché dell’amico, il perché dell’innamorato, il perché fanciullesco della meraviglia.

Resta il perchè, dopo questo film, a Francesco Nuti non sia stato più consentito di lavorare come prima. Per la precisione da quel momento in poi nessuno ha più prodotto una pellicola di Nuti, che è tornato alla regia soltanto nel 1998 con Medusa ma solo per la distribuzione (rende bene l’idea del ‘carabiniere buono’, compare del cattivo, che finge di aiutare, l’immagine di Francesco ospitato quell’anno da Maurizio Costanzo, il paludato Giuliano Ferrara dei salotti televisivi, affiancato da una scollacciata attrice de partito e punzecchiato dal conduttore sulla sua passione per le donne, benchè Nuti fosse sposato dal 1992 con Anna Maria Malipiero e in attesa della adorata figlia Ginevra nata pochi mesi dopo; e nel maggio 2006 una scorretta intervista telefonica di Cruciani). Già, nessuna casa di produzione si è fatta avanti, nessuno dei tanti finti amici che in queste settimane si sperticano in lodi e si mostrano addolorati davanti alle telecamere. Francesco Nuti era perfettamente in grado di recitare, lo si evince non solo in Caruso, zero in condotta del 2001, ma anche, seppur appannato, in Concorso di colpa del 2005 (unico ruolo concessogli il vicequestore di polizia). Non posso sapere in che misura depressione e alcol, fino al grave incidente domestico del settembre 2006, lo abbiano rovinato, quello che è assolutamente falso è il concetto fatto passare implicitamente dai media nazionali (è caduto per “vanità”, “fragilità”, “perdita del successo”, “troppa curiosità”) di una “autodistruzione inevitabile”. Fortunatamente a Prato molti lo conoscevano, gli volevano bene e hanno buona memoria. Nuti avrebbe potuto ancora dirigere, anche nelle difficilissime condizioni degli ultimi 17 anni, ha scritto nuove storie (Olga e i fratellastri Billi e I due casellanti) sempre con la collaborazione del fratello Giovanni, medico, compositore delle musiche di tutti i suoi film, grazie al quale ha dato alle stampe l’autobiografia Sono un bravo ragazzo. Andata, caduta e ritorno per tipi Rizzoli (perché la casa editrice non fa una ristampa?), ma nessuno gli ha dato spazio. Un capitolo è intitolato ‘Maledetto ai Parioli’, famoso quartiere della Roma radical chic. Non bisogna essere scienziati della psiche per capire che una richiesta di aiuto, quella più volte lanciata in appelli anche pubblici dal 2001 al 2006, non va ignorata come è avvenuto. Conosco personalmente la dinamica: se tu, artista o giornalista indipendente senza le mani in pasta, senza capi nè protettori, dunque necessariamente in cerca di produttori del tuo lavoro, non scrivi quello che pretendono, non ti fai portatore di talune congetture, allora non trovi più spazio. Non bisogna essere giornalisti di inchiesta per comprendere che non siamo in presenza di fatalità, piuttosto di azioni consapevoli di soggetti cattivi, scorretti e falsi tese a rovinare le vite di quelle persone libere: in questo caso sono riusciti a determinare, quantomeno a peggiorare, la depressione e l’alcolismo degli ultimi anni di Francesco Nuti, conseguenza e non causa, effetto di quella censura, di quell’isolamento continuativo. In OcchioPinocchio Francesco dice a Lucy la fuggitiva: “Se stiamo insieme, ci possiamo anche aiutare”. É un’espressione semplice, trasparente, bella come il “perchè”. La risposta la trovo nel filo sottile del Poeta Francesco Nuti attraverso i suoi film, in Tutta colpa del paradiso, ad esempio, mi commuove il sorriso finale di Alessandro alla rinuncia felice di Romeo, un sorriso di sollievo, gratitudine, stima, amicizia, solidarietà.

Francesco Nuti dice addio a Ornella Muti e a Roberto Alpi, genitori adottivi di suo figlio, in 'Tutta colpa del paradiso'

La stupenda colonna sonora: https://youtu.be/0t0Z-VY8lpQ

Near Nazareth film festival: bellissima finale!

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Per noi del film ‘Il pastore e la strega’ è stata davvero una splendida esperienza partecipare, seppure da lontano, alla finale del Near Nazareth film festival nella sezione lungometraggi. E’ stato un momento di incontro sociale fra filmaker provenienti da culture diverse e di studio dei lavori cinematografici realizzati in 13 paesi, dall’India alla Spagna (due film), dalla Colombia all’Ungheria, dalla Cina alla Francia, dalla Germania agli Stati Uniti, dal Perù alla Repubblica Ceca, dalla Finlandia alla Russia, che con ben tre pellicole arricchisce il legame con questo importante festival di Israele: https://nnfest21.wixsite.com/website-1/feature-screenplay
Il vincitore è stato il film ‘The Doctor’ di Artyom Temnikov, congratulazioni! E come ricorda il certificato donato dai responsabili del festival di Nazareth, “gratitudine per la cooperazione e il rafforzamento dell’amicizia e della compresione tra le nazioni”

Uscirà in autunno, assieme al film, il romanzo ‘Il pastore e la strega’: stasera un’anteprima

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Capitolo III

Nel capannone degli attrezzi del fabbro una decina di persone stava discutendo animatamente. Il progetto di Silvio avrebbe dato lavoro nel periodo dell’anno in cui sull’isola manca la risorsa del turismo. Tuttavia alcuni, senza sospettare minimamente dello smaltimento illecito dei rifiuti, già avevano notato le pesanti ripercussioni ambientali del progetto di cementificazione. “Avanti, spostiamo i camion che dobbiamo ricevere i materiali entro sera”. Uno dei lavoratori più giovani non partecipava alla discussione, stava battendo col martello sul ferro con costante impegno. Il titolare dell’azienda, Duillio, gli si avvicinò con aria torva. “Sei ancora a metà? Più svelto Emanuele, più svelto”. Il ragazzo non rispose, proseguendo in modo leggermente più veloce. Faccia pulita, capelli corti e sempre ordinati, occhi scuri, fisico atletico e altezza oltre la media anche se passava un terzo della giornata piegato a lavorare.

Lele: “Ma avevi detto che potevo staccare prima oggi… “.

Duillio: “Se prima non finisci te lo scordi”.

Lele:“Mia cugina compie gli anni… “.

Duilio: “E mia zia li ha fatti il mese scorso, allora? Se non finisci entro mezzanotte ti licenzio, intesi?”

Il padrone uscì sbattendo la porta, due operai lo seguirono chiedendogli lumi sui materiali in arrivo. Emanuele rallentò il ritmo, pian piano progressivamente fino a fermarsi. Gettò il martello sul bancone da lavoro. “Pimpulupampulupalimpampù”. La filastrocca che gorgheggiava da piccolo, quando giocava fra gli animali della fattoria di famiglia, gli echeggiava immaginifica. Dalla vetrata alta del grigio capannone, fra le assi di ferro e le lamiere, l’olio e la polvere, sognava la montagna: le capre felici che si rincorrono fra i rigogliosi alberi ricchi di foglie e di profumi, sostenuti da una terra fortemente mineralizzata, luccicante nelle facciate di granito riflesse dal sole. Non vi era mai salito, lassù a mille metri di altezza. Forse perché era cresciuto in una famiglia molto povera di contadini, dove nessuno poteva permettersi il lusso di un’automobile né di perdere tempo in una escursione d’alta quota. Invero Lele era un bimbetto molto attivo, instancabile, che amava immergersi nella natura ad ogni occasione. Aveva cominciato a lavorare molto presto, ma neppure le lunghissime giornate nei campi a raccogliere l’uva e le olive avevano fiaccato la sua voglia. La sera, mentre genitori e zii, dopo una frugale cena al tramonto, si ritiravano nelle stanze, lui usciva al chiarore delle stelle. “Amavo contarle, ma erano così tante da perdere sempre il conto. Assegnavo a ciascuna un nome”. Con l’arrivo della bella stagione correva a perdifiato sulla prima collina, sovente cadeva o si rotolava volutamente per poi stendersi col naso all’insù, non di rado restava accoccolato nell’erba fino al sopraggiungere di Morfeo. Quelle dormite erano meravigliose, dense di sogni e di profumi. All’alba poi, rischiando di rincasare tardi e di prendersi una sonora sgridata, nelle giornate più calde, si tuffava nel grande fiume che sorgeva in montagna.

Anche adesso Lele avrebbe desiderato farlo. Sentiva l’unto sul viso, la polvere sotto la maglia della salute, era abituato a conviverci, come fosse una seconda pelle, parimenti il ferro battuto era la colonna sonora del film della sua esistenza professionale. Ma l’abitudine e la necessità nulla possono all’erompere dell’inconscio. Emanuele bramava di correre sulla montagna per fare ciò che in venticinque anni non aveva mai fatto: vedere il mare dall’alto, scoprire la sorgente di quel flusso d’acqua fresca delle sue aurore di libertà, attendere assieme il crepuscolo in attesa dello splendore galattico: il mare sotto, il fiume accanto, le stelle sopra. Di animali ne aveva incontrati diversi, soprattutto gli asini abbondavano fra gli agricoltori. Quei musi lunghi dal passo lento gli erano sempre stati simpatici. Non perché trasportassero il granito, le damigiane di vino e gli altri prodotti, ma per la loro intelligenza, dai più disconosciuta ma ben presente ai lavoratori della terra. Se un asino è stremato, per le dure fatiche o per il caldo eccessivo, non c’è ordine o scudisciata che possano convincerlo a riprendere il cammino. Aveva scoperto molto tardi, e in rare occasioni, le pecore e le capre, di cui aveva sentito tanto parlare. Era ghiotto del loro latte, che aveva sempre assunto in quantità smisurata da quando la madre aveva finito di allattarlo. Il liquido genuino e fresco era un toccasana per tutti gli abitanti, ma il numero dei pastori si era andato riducendo nel corso degli anni. Gli ultimi che ancora praticavano l’allevamento sull’isola non transitavano quasi mai per la zona della fattoria e del capannone dove si trovava adesso Emanuele. Quando capitava però che l’anziano pastore scendesse dalla montagna con l’asino e il cane, il ragazzo non mancava mai. In città i suoi coetanei avevano interessi più convenzionali, durante le cerimonie ufficiali facevano a gara per conquistarsi un posto in prima fila al passaggio dei campioni dello sport o per i soldati col pennacchio. Lui invece riusciva a percepire l’arrivo dell’allevatore e lasciava la zappa, incurante dei rimproveri dei cugini più grandi, per corrergli incontro. Dopo un saluto caloroso che riempiva d’orgoglio il pastore, l’attenzione di Lele si concentrava praticamente solo sulle pecore e sulle capre. I loro sguardi teneri e puri erano fonte di curiosità e allegria, ci si specchiava arrivando a sfiorare le loro testoline senza alcun timore. Seguiva poi le paffute amiche nei movimenti, chiedendosi quali erbe preferissero brucare e scatenando la propria immaginazione sulle relazioni sociali fra di esse. Sarebbe rimasto ad accarezzarle per ore, affondando le mani nella loro lana morbida e accogliente.

Emanuele, ripensandoci adesso, volava con la fantasia. Gli parve di sentire il calore delle coccole, i loro belati, e guardando fuori dall’alta vetrata del capannone vivificava le nuvole, disegnandole con la mente come arruffate caprette. Quando l’energumeno che stava all’interno, una sorta di addetto alla sicurezza dell’azienda, se ne uscì a fumare nel cortile, lui corse verso l’ufficio del titolare. Duilio era uscito per depositare alcuni documenti fiscali. Lele salì in piedi sulla scrivania per raggiungere una finestrella. Scivolò maldestramente su alcune fatture disseminate sul tavolo, dando una gran botta al ginocchio. Ma il dolore passò in un baleno, il tempo di contemplare lo spicchio di montagna sul cielo dell’isola. Con un salto degno d’un atleta olimpico si aggrappò al pertugio, trascinandosi lentamente ci si infilò con il capo. Malgrado fosse smilzo ci entrava appena, pertanto dovette spingere strofinandosi contro i lembi della finestra. La scelta era assolutamente irrazionale. Sarebbe potuto andare in montagna alla sera, dopo l’orario di lavoro, oppure, se il suo intento fosse stato quello di fuggire per sempre dal capannone, sarebbe bastato non ripresentarsi l’indomani. “Sicuramente avrei dato un dolore alla mia famiglia, ma il signor Duilio, che mi minacciava non di rado di licenziamento, non avrebbe fatto tante storie. Certo, mi avrebbe decurtato tutto il de… rubabile, ma mi avrebbe rimpiazzato senza problemi”. Allora perché quella fuga diurna? Davvero era così importante passare in pasticceria per comperare la torta di vino, pinoli e uvetta per la cugina? No, forse Emanuele aveva concepito in quel preciso istante ciò che desiderava realmente nel suo avvenire. “Pimpulupampulupalimpampù” disse volando fuori dalla finestra per atterrare sull’asfalfo.

Alex Ferrini, che nel film interpreta Emanuele il pastore

Il pastore e la strega, le date dei cinema aggiornate

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Ecco l’elenco dei cinema che proietteranno Il pastore e la strega al 9 maggio 2023:

Cinema Nello Santi di Portoferraio: venerdì 6 ottobre

Cinema teatro Flamingo di Capoliveri, sabato 7 ottobre

Possibili repliche il fine settimana seguente

Cinema teatro Metropolitan di Piombino, lunedì 23 e martedì 24 ottobre

Cinema Castello di Fabbrico, giovedì 2 novembre e martedì 7 novembre

Cinema Moderno di Piacenza, venerdì 3 novembre e venerdì 10 novembre

Cinema Filmstudio 7B di Modena, martedì 7 novembre e mercoledì 8 novembre

Cinema La Perla di Bologna, venerdì 10 novembre, sabato 11 novembre, domenica 12 novembre

Cinema multisala Novecento di Cavriago, martedì 14 novembre e mercoledì 15 novembre

Cinema teatro Lux di Quistello, giovedì 16 novembre

Cinema multisala Eliseo di Cesena, giovedì 23 novembre

Cinema teatro Facchini di Medolla, venerdì 24 novembre

Cinema II Nuovo di Castelfranco Emilia lunedì 27 novembre

Cinema Zambelli di Boretto, giovedì 30 novembre

Cinema Lux di Fontanaluccia, venerdì 8 dicembre, sabato 9 dicembre, domenica 10 dicembre

Altri cinema che proietteranno il film:

Cinema Sarti Faenza e cinema Mariani Ravenna

Cinema Eden Carpi

Cinema Mignon Mantova

Cinema Grand’Italia Traversetolo

Tour laziale: Cinema Filmstudio di Roma gennaio

Tour veneto: Cinema Robegano di Venezia e Cinema Esperia di Padova febbraio

Grazie a tutti, buona continuazione!





Elba, semplicemente gioiosa

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Se dovessi scrivere dell’isola d’Elba, vorrei essere un poeta per esprimere ciò che non riesco a parole: la gioia. La scoprii tanti anni fa, ci tornavo qualche volta per il week-end o per una settimana se accumulavo qualche giorno di ferie e “di corta” dalla radio e poi dal giornale. Il motivo principale: adoro quelle rocce, che poi avrei incontrato solo nel Salento, quel mare, quei fiori di mille colori e profumi. Mi sembrava di trovare qui un pezzetto di ogni parte d’Italia, ma era come se l’isola promettesse un’armonia unica. Negli ultimi due anni l’ho frequentata per più tempo e quelle promesse sono state mantenute, perchè l’armonia non era dovuta al relax di una vacanza, ma ad una dimensione speciale che si vive anche quando si deve lavorare a ritmi piuttosto intensi, come appunto per la realizzazione del film ‘Il pastore e la strega’, che girammo da inizio aprile a fine giugno. Ho conosciuto tante persone diverse, isolane di generazioni, quelli che parlano un gergo toscano meno forte e marcato rispetto al classico fiorentino, cittadini nuovi, provenienti da varie parti di Italia e del mondo: tutte mi hanno trasmesso qualcosa di positivo, fotografi, operatori, attori, collaboratori e comparse, musicisti, viaggiatori, velisti, storici, pittori, pescatori, allevatori, forestali, veterinari, contadini. Per ultimi lo scorso settembre ho conosciuto i signori Montauti, discendenti del primo governatore di Cosmopoli (Portoferraio, che ha la bandiera dello stesso lapislazzuli della piazza di Firenze) Francesco Antonio. Dovendo raggiungere l’isola rapidamente per terminare il montaggio del film, avevo chiamato l’agenzia di viaggi Easy Elba, che mi propose un appartamento a Marina di Campo. Era di proprietà dei Montauti, che vivevano nelle due case a fianco: il sindaco Davide, i suoi genitori Viviana e Piergiorgio con “il cagnino”. I toscani hanno l’abitudine, questo a Pietrasanta come a Firenze, a Livorno come a San Miniato, a Siena come a Populonia (la Toscana è tutta stupenda), di chiamare le persone e gli animaletti con il diminutivo “ino-ina”, per cui capitava spesso di sentirsi salutare con “ciao Stefanino!”. A me non riusciva di rispondere uguale, ma lo trovo simpatico, è curioso che i toscani, insieme ai campani, siano i più bravi attori comici nel teatro e al cinema. Sull’isola questa abitudine è limitata agli animaletti come “il cagnino”. Ora sono tornato nella casetta dello scorso anno, in quella verde anziché in quella azzurra, a Lacona, più congeniale per il lavoro di prove nei cinema di Portoferraio e Capoliveri. Appena arrivato gli occhi si sono immersi nei fiori gialli e nelle rocce, poi sono stato al cinema teatro di Capoliveri per le verifiche del film, pian piano ho incontrato altri amici che suonavano la sera e i pescatori. Oggi, uscendo per fare compere, ho notato una frase di Leopardi in una targa appesa al cancello di un campo agricolo gestito dal gruppo degli ‘Orti di mare’, dedicata alle persone di valore che spesso hanno maniere semplici. Dopo aver concordato una nuova proiezione del film con il cineclub di Boretto, ho incontrato Piergiorgio Montauti a passeggio. Abbiamo fatto insieme un giro per Marina di Campo, ci ha raggiunto Davide, che è orgoglioso dei lavori effettuati, il campo sportivo e la pulizia dei canali, e anche per aver detto “no” a miliardari che pretendevano l’autorizzazione a costruire sulle coste incontaminate, ha anche detto no all’allargamento dell’aeroporto che avrebbe consentito di arrivare dall’estero direttamente a Marina di Campo. Non è comunque difficile raggiungere l’isola: se la donna per cui batte il mio cuore decidesse di venire sull’isola, può scendere all’aeroporto di Pisa e prendere subito un altro aereo per Marina di Campo, oppure io l’andrei a prendere con la macchina a Pisa e poi prenderemmo il traghetto insieme. E’ bello viaggiare in nave, anche la sera, ricordo il ritorno con la boat da Dover a Calais, reso meno malinconico da Cindy Connor e Michael Kent, una coppia di artisti giramondo. Piergiorgio e Viviana stanno insieme da ancora più tempo, 60 anni! Viviana ha un nome melodico, come quello di una principessa, i suoi occhi brillano ancora come quelli della foto da giovane, Piergiogio la ama come allora.

Dalla primavera in poi

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Nei prossimi mesi ho intenzione di recarmi su due isole. Prima mi recherò sull’isola d’Elba per lavorare alla programmazione del film ‘Il pastore e la strega’, di cui ora riassumo le date fissate con i rispettivi proprietati delle sale: https://www.elbareport.it/arte-cultura/item/59952-la-programmazione-nelle-sale-anche-elbane-del-film-il-pastore-e-la-strega-,-di-stefano-santachiara-girato-all-elba Oltre alle date citate nell’articolo di Elbareport sono state concordate 25-26 ottobre cinema Salesiani di Livorno, a seguire Sale Esse Firenze (fine ottobre data da definire), 7-8 novembre Filmstudio 7B di Modena, 15-16 novembre Multisala Novecento Cavriago, 23 novembre Eliseo Multisala Cesena, inizio gennaio 2024 Filmstudio Roma.

Adoro tutti questi luoghi, ma più di tutti, quando Francesco e Lazzaro mi hanno consigliato alcune sale nel Cilento, e Giulio Tammaro, un amico di Bagnolo Irpino, il cinema di Lioni, la mente è tornata ad un periodo particolare, quando fra l’Emilia, il Lazio e la Campania sognavo una nuova vita fatta di sceneggiature e libertà, di arte e amore. Lou Salomé si è rivelata poi solo un’utopia: in un teatro italiano, nonostante l’impegno di due compagnie teatrali, a causa dei mancati contributi economici da parte di Enti e Fondazioni, non è mai arrivata, neppure al cinema, pazienza, chissà in futuro! Però quel periodo era unico per qualcosa di molto più importante del lavoro. Si sente spesso dire che i momenti più belli sono nell’attesa, forse è proprio così, ma non di un’attesa generica del domani. Certo, anche le attese dell’ignoto e dell’avventura possono essere piacevoli, lo sono spesso state, ma quel periodo per me era unico perché unico era il viaggio che il ricordo dello ieri e l’attesa del domani stavano facendo insieme. Sì, il ricordo meraviglioso e l’attesa meravigliosa di un qualcosa che si può dire soltanto con gli occhi. Viaggiavo nell’aere fino a lei coi gabbiani del Tevere e per la Campania felix, ogni fiore sprigionava un profumo così intenso da avvertirlo oltre le narici, nel respiro, fino in fondo al cuore. L’attesa fu vana? Le mille e mille difficoltà sul cammino l’hanno resa impossibile? Io aspetterò dal 26 aprile di nuovo in un piccolo Castello, sull’isola d’Elba, e poi, in luglio, prenderò un treno per il Regno Unito.

Nuovo racconto: Il tesoro della regina

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Il nuovo libro ‘Il tesoro della regina’ sulle pagine di Articolo 21 https://www.articolo21.org/2023/02/il-nuovo-racconto-di-santachiara-il-tesoro-della-regina/

Per i lettori di questo scalcagnato blog, invece, un altro pezzetto del racconto:


Agnese e Sara passeggiavano lungo la piazza, come ogni giorno feriale si erano già alzate di buon mattino. In verità Sara, che non faceva tardi alle feste come l’amica con Andrè, nell’ultimo periodo aveva preso l’abitudine di svegliarsi all’alba anche nel week-end. Capitava così che andasse in periferia sotto il condominio di Agnese, un palazzone in stato di degrado, ormai abitato da poche famiglie, e suonasse al citofono prima delle fatidiche dieci. “Ma sono appena tornata da casa di Andrè, dai ci vediamo nel pome” si sentiva rispondere. Sara non demordeva, e con persuasiva allegria le chiedeva di salire per poterle preparare un caffè con la moka. L’arrugginita caffettiera dei genitori di Agnese era tutt’altra storia rispetto alla macchinetta che usavano nella sezione a loro riservata dell’ufficio del professore. Per Sara era un buon allenamento: saliva sette piani di scale senza ascensore, fuori uso da un paio d’anni a causa dei mancati interventi dell’amministratore di condominio, in perenne lite per questioni di bollette del gas e di raccolta differenziata. Incontrandosi, le due ragazze erano praticamente l’opposto: Sara col fiatone ma carica di energia, Agnese sbadigliante e pronta a rimettersi fra le coperte. Cosa che talvolta avveniva: “Non farmi il caffè, io dormo!”. “Sì sì…” rispondeva bugiarda Sara fingendo di andare al bagno. “Signora, posso?” chiedeva alla madre dell’amica in cucina a rassettare. Quando la giovane mattiniera entrava nella camera di Agnese, intorpidita ma ancora sveglia, metteva sul comodino la bevanda, invitante per aroma e consistenza, giacché aveva separato un poco di caffè montandolo con lo zucchero. Agnese lo sorseggiava con gli occhi semichiusi, restando attaccata alla tazza. “Stai bene coi baffi!” Le burle di Sara provocavano reazioni a catena. Il suo scopo poteva essere quello di uscire di casa anzitempo, soprattutto nelle giornate di sole, ma il mezzo era più avvincente del fine. Anche senza caffè, gli scherzi potevano diventare cuscinate, aggressioni di solletico o scalcagnate performance delle corde vocali che avrebbero dovuto somigliare vagamente alle canzoni preferite.(…)

Le ‘sis’ erano arrivate alla Pieve. La prima chiesa della città, di architettura romanica, si trovava a pochi metri dal retro del Castello. A separare i due edifici storici vi erano una piazzetta e, a lato, un piccolo parco. Il sole stava tramontando, col passare dei minuti la punta dell’alta torre campanaria assumeva sfumature cangianti incantevoli. Le ragazze naufragarono nella meraviglia insieme naturale ed artistica. Una dimensione diversa, grazie alla quale assaporarono minuscoli frammenti in passato scivolati via dagli occhi.

Sara: “Aquile, uccelli fantastici sui capitelli”.

Agnese: “Gli animali longobardi per eccellenza”.

Sara: “Li avevamo sotto il naso e…”

Agnese: “Guarda il bassorilievo”.

Sara: “Raffigurazioni sacre”.

Agnese: “Sai chi ampliò la Pieve dopo i Longobardi?”

Sara: “Chi?”

Agnese: “Matilde di Canossa”.

Sara: “Eh eh”.

Agnese: “Sei sicura che sulla foto di Johnny ci sia la mappa del tesoro?”

Sara: “Me lo sento. Avranno avuto qualche dritta ad alto livello, tipo agenti deviati”.

Agnese: “Mmm come fai a dirlo?”

Sara: “Quella è gente che non si muove senza certezze”.

Agnese: “Chiamiamo il commissariato”.

Sara: “E per dirgli cosa? Che hanno rubato una foto di mezzo secolo fa che non abbiamo mai visto e che una pergamena con scritto Thesaurus ci è stata rubata dal tuo fidanzato?”

Agnese, provando a telefonare: “Che nervi… sempre spento”.

Sara: “Einstein”.

Agnese: “A volte mi chiedo cosa… Cioè, non so nemmeno cosa ci tiene legati, forse il bisogno di non deludere i miei: lo considerano un fidanzato modello”.

Sara: “Devi essere tu stessa a guardarti dentro, in profondità…”

Agnese, distratta dal cielo di colore rosa del crepuscolo: “La persona che amo non si accorge neppure di me, tutta presa dalla sua voglia di vincere…”.


Le foto del libro sono firmate da Stefano Stradi






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Lou Salomè, thanks to everyone and see you soon

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Thanks to everyone who came to the art performances of Deborah Edgeley and Mark Sheeky in Congleton and Crewe libraries! On ‘Fall in Green’ youtube channel Mark will put the other parts of the first event ‘Lou Salomè Empathy with Daisies’

Here a moment before the performance in Crewe with Nan Walton, the major of the city:

Thanks also to the journalists who made us a surprise writing about the art performance of Deborah and Mark inspired by the book ‘Loving Lou Salomè’ :

Fatto Quotidiano (director Marco Travaglio) : https://mobile.twitter.com/marksheeky/status/1554753007295815682

Radio This is the Cat:

The book ‘Loving Lou Salomè’ is available in these libraries: Liverpool Central, Congleton, Crewe and from the next week in Fleetwood, quiet place of sea in which i’m staying in these days because the Blackpool train station is closed since yesterday morning. I will try on Sunday to take a train thinking of a butterfly of a thousand colors

The art performance ‘Empathy with Daisies’

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Here we speak English now 🙂

For the joy of the interested people who could not come to Congleton library last week and for the curious ones, Mark Sheeky in these days has been working at the videos of the art performance ‘Lou Salomè, Empathy with Daisies’.

Ladies and gentlemen, ‘A Freud’ s lecture’. With Deborah Edgeley, the poet Jane Harland, Mark Sheeky.

This is ‘Give me your pain’

Meanwhile we wait to see the other parts of the premiere(you will find it day by day in ‘Fall in Green’ YouTube), and prepare the next art performance at Crewe library (12 th august, 4 p.m.), Mark has done a video of my speech at the end of Congleton evening (no, my english…)

Lou Salomè, the performance in Great Britain

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A first great performance of the artists Deborah Edgeley and Mark Sheeky! ‘Empathy with Daisies’, poems with music inspired by ‘Loving Lou Salomè’, has flourished in Congleton library: https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=pfbid08vmVKs5M8RuwooSDB92uf9swR1wvQHTTP8KnSgXGYYaUTg3UQCynMsKrwrRh8jmAl&id=559402499

The video of the performance will be made public by Mark soon. The artists are planning other evenings starting from Crewe 12 august.

The book ‘Loving Lou Salomè’ is available in Congleton and Crewe libraries and, from next week, in Liverpool Central Library.

Who needs informations about the performance and my book can write to the mail address: stefsantachiara@gmail.com

My phone number is 0039-3534121670

‘Ritorno a Elsinore’, la magia del destino

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Immaginate che Amleto non sia morto, che sia stato salvato da un medico, sopraggiunto assieme a Fortebraccio pochi istanti dopo l’avvelenamento attraverso la punta della spada di Laerte, ma che questa sua rinascita avvenga con la perdita della memoria. E’ l’idea geniale di ‘Ritorno ad Elsinore’, romanzo e sceneggiatura di Sebastiano Privitera, autore siracusano residente a Reggio Emilia, dove ha fondato l’associazione ‘ Di Prosa in Prosa”. Negli ultimi anni Sebastiano ha portato in scena commedie di Eduardo, Goldoni, Pirandello (integrando anche la novella ‘La casa di Granella’), e adesso mi onora della riduzione teatrale di ‘Lou Salomé’. Ho letto tutto d’un fiato ‘Ritorno ad Elsinore’, preso per mano dalla curiosità crescente e dalle sorprese di un mosaico meno sanguinoso dell’Amleto, dove i rapporti umani si fanno più profondi nell’intreccio delle storie di una compagnia teatrale e della corte di Danimarca. Mi hanno colpito la ricchezza linguistica, essenziale e originale, i passi dell’Iliade e della Divina Commedia, la dimensione familiare ed assieme evocativa degli avvenimenti, effettivamente cinematograficizzabili, la cura dei personaggi nelle sfumature psicologiche, anche le più impercettibili e mutevoli. Il Teatro qui incrocia le durezze della vita, smussandole con fantasia e delicatezza, evitando le lusinghe e le insidie dell’ambizione con i suoi strabilianti trucchi, ma lo scopo è solo la verità. Cioè il disvelamento di se stessi, quand’anche una fitta coltre di segreti, malintesi e convenzioni annebbia le emozioni baciate dalla magia del destino. Il semplice e puro volersi bene aguzza l’ingegno e schiarisce tutto, “stella salente” come un fiore che sboccia anche al freddo.

Il romanzo “Ritorno ad Elsinore”

P.S. Oggi il programma ‘Linea Verde’ di Rai1 ha mandato in onda immagini di Ostuni (Brindisi) dando una notizia: al contrario di tanti personaggi famosi che hanno pubblicizzato più volte e in modo artificiale altre zone d’Italia, la cantante Madonna ha festeggiato il suo ultimo compleanno nella città bianca. Madonna, che adoro da quando il suo concerto di Firenze del 1987 fece da sottofondo alla nascita dei micini della mia prima gatta, ha cantato in un ristorante di Ostuni insieme alla band, agli amici e al fidanzato il successo di Domenico Modugno, “Nel blu dipinto di blu”. La sua vecchia canzone “True blue” sarebbe una dedica triste soltanto se fosse stato un addio, ma sarebbe meravigliosa se fosse un arrivederci. La notizia è del 20 agosto 2021, mi era sfuggita perchè in quei giorni casualmente eravamo impegnati nelle letture recitate a Lido di Camaiore, inserite due giorni dopo sul mio canale Youtube, un momento di gioia e libertà.
https://www.lapresse.it/spettacoli/musica/2021/08/20/madonna-a-ostuni-canta-bella-ciao/

I luoghi dei nuovi progetti

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Da gennaio in Emilia Romagna organizzazione e prove dello spettacolo a Teatro sulla vita di Lou Salomè, il regista Sebastiano Privitera, fondatore dell’associazione ‘Di prosa in prosa’, curerà la riduzione teatrale della mia sceneggiatura.

28 gennaio, terza dose di vaccino

Milano, incontro con Ferruccio Pinotti, co-autore del libro inchiesta ‘I panni sporchi della sinistra’

Roma, presentazione del documentario di Sabina Guzzanti ‘Spin time, che fatica la democrazia’

Bologna, presentazione dello spettacolo di Marco Travaglio, “Il Conticidio dei migliori”

Da aprile a giugno isola d’Elba, realizzazione del film ‘Il pastore e la strega’ con Gennaro Squillace, actor coach, Roberta Madioni, costumista, interpreti Florencia da Rold, Alessandro Frugis, Paolo Mancusi, Gina Petricciuolo, Lara Elena Deiana, Alex Ferrini, Giancono Cammarano, Giuseppe Greco, Manuela Cavallin, musiche di Stefano Naldi e Antonio Sessa, montaggio di Francesco Guida

Pubblicazione del romanzo ‘Il pastore e la strega’

Street artist, cortometraggio da realizzare a Bologna

Estate: in Italia presentazione de ‘ La purezza del serpente’ assieme ad Angelo Martinelli, giudice e giallista, presso la Biblioteca di Piozzano, coordina la responsabile Raffaella Brignoli

In Inghilterra organizzazione di letture tratte dal libro ‘Loving Lou Salomé’ (traduzione in inglese di Angelika Malenkina): l’idea, nata a dicembre con Deborah Edgeley e Mark Sheeky, è di integrare i dialoghi e le poesie con la musica, speriamo di realizzare l’evento già questa estate a Crewe nell’ambito di ‘Fall in Green’ https://deborahedgeley.com/fall-in-green
Anche altri artisti, se interessati, potranno recitare Salomé in altre città della Gran Bretagna
P.S. Il viaggio in Gbr sarà in treno, con sosta a Parigi, e in traghetto

A settembre ritorno a Castellabate per lavorare con Francesco Guida al montaggio e alle musiche, composte da Stefano Naldi, del film ‘Il pastore e la strega’. Poi Venezia, Firenze, Roma

Il bel libro benefico di Daniela Santini Bertoni

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Ciao a tutti, amici, lettori e curiosi. Vi invito a leggere il romanzo di Daniela Santini Bertoni, davvero bello! È per una giusta causa! https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=972924930308021&id=100027715681566&m_entstream_source=timeline&ref=bookmarks

Estate 2021, lavoro e gioia

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Il film Corpo torna in Tv

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Dopo la messa in onda su Stile Tv in aprile e la proiezione speciale al Castello di Castellabate del 23 agosto, il nostro film sarà trasmesso il 22 settembre sulla rete Tv85 nella puntata di The Observer di Tito Taddei

Le interviste ai protagonisti e il film:

Le librerie che espongono La purezza del serpente

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Scelti nelle vetrine di Mondadori, Einaudi, Ubik, La Fenice, Libreria della Galleria di piazza Duomo, Libreria del Teatro, Goldoni, Arno, Trastevere e tante librerie indipendenti in tutta Italia (nelle foto le vetrine dell’Emilia Romagna) . Già nelle prime settimane i risultati sono ottimi, non a livello de ‘I panni sporchi della sinistra’, bestseller dal 2013, ma superiori già al totale delle copie vendute di ‘Socialfemminismo’, ‘Corpo’ e ‘Lou Salomè’.

Dal Verismo alla magia, letture versiliane de La purezza del serpente

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Letture drammatizzate per la regia di Katiuscia Giannecchini, con Luca Giannecchini, Giulia Balconi, Federico Fambrini, musica di Stefano Naldi, introduzione della professoressa Elisabetta Landi

La purezza del serpente in scena a Firenze

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Mentre una lettura non espressiva veniva realizzata nell’incanto elbano da Florencia da Rold e Stefania Scuderi

La purezza del serpente su ‘Il Giornale’

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“È la stessa ansia di sfuggire a una storia già scritta, a un mondo dove il maschio scrive regole e traccia i confini di cosa è lecito e opportuno. È la rivolta di Elena, che si specchia in Chiara e la rincorre, e la cerca, pensando che un altro orizzonte sia possibile, in un luogo dove il sogno sia un diritto inalienabile, dove non sia un dovere tradire i giuramenti sottoscritti da bambini, dove esistono i draghi e la magia non ha nulla di bizzarro, di straniante, di pernicioso, perché non è qualcosa di contronatura, ma quotidiano e naturale. È un viaggio, dall’Elba alla Versilia, da Firenze al mare, alla ricerca della bellezza come deragliamento dei sensi e, allo stesso tempo, di recupero di uno spirito animale, come simbolo, patrono, divinità”. (Vittorio Macioce – Il Giornale).
Lou-Salomé, Monika, Elena. Tutte le ribelli di Santachiara – ilGiornale.it
Come scriveva Dino Buzzati, se un racconto è riuscito a toccarvi il cuore, allora non è stato inutile.
Alcune recensioni dei lettori

Elisabetta Landi
“Ho letto La purezza del serpente, E’ un romanzo originale, che ci regala il piacere del leggere. Il racconto incalza, e alterna gli episodi in modo simultaneo come in uno zoom “cinematografico” che non dà tregua al lettore e continuamente lo afferra, e lo incuriosisce. Il mondo interiore, reso con intenso lirismo e al tempo stesso con vivacità, sfida la realtà e afferma una verità parallela in uno scenario incantato, fatto di sfumature. Così, ad esempio, con pennellate che si combinano in un “caleidoscopio” di colori come in un dipinto simbolista, l’isola d’Elba è catturata nella sua anima profonda, fatta di luoghi arcani riservati a chi sappia scoprirli. E’ un “realismo magico”, per alcuni aspetti, ma il messaggio è concreto e lo si intuisce nel momento dionisiaco dove un’umanità libera da condizionamenti si rispecchia nella Natura in una “pienezza” primigenia.Una lettura affascinante, resa più seducente da immagini di autentica poesia: i massi dell’Elba che svettano come sculture di Dio, il viso della protagonista che si immerge nei petali delle rose del giardino, le sfumature iridescenti di una grotta marina e tante altre perle…”

Anna Maria Padovan

“Ho letto “La purezza del serpente ” e sono rimasta totalmente ammaliata dal modo di scrivere. Le descrizioni particolareggiate di gesti come ad esempio bere il the o non bere il the, i luoghi e le sensazioni provate dal personaggio mi sono penetrate a fondo nei momenti di lettura. Santachiara riesce a far protagonista della storia il lettore. Il suo modo di esprimere sulla carta lo paragono al grande Cronin maestro di altri tempi”

Pietro Crosignani

“Da appassionato del genere considero La purezza del serpente un romanzo di qualità paragonabile alle storie di Murakami. Cercherò di motivare le ragioni : innanzitutto per quelle atmosfere oniriche, surreali, che ti avvolgono. Un altro aspetto è il percorso delle vite dei personaggi che sembra parallelo ma ad un certo punto si sovrappone. La chimica narrativa di questi incroci, e secondo me qui risiede il miglior talento di Santachiara, determina il senso intimo dei personaggi, come se fosse necessario l’uno per comprendere l’altro. Inoltre per quanto tu possa essere razionale come la protagonista, la vita si rivela fuori dal nostro controllo, questa storia ci tuffa in un mondo misterioso, incantato, fatto di metamorfosi personali, di vascelli e di grotte segrete, di animali che interagiscono oltre il confine del noto. Il rebus si risolve per tutti ma ciò che trovo sublime è la serie di sfumature e di interpretazioni a più livelli che emergono come un’alta marea nella mente e anche nell’inconscio di chi legge. Come spiegava Murakami al suo editor nel libro “1Q84”, e dimostrava Buzzati, questa è la miglior qualità di una storia”.



Booksitter recensisce ‘La purezza del serpente’

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La storia di un altro tempo è quella di Elena, la protagonista de La purezza del serpente, il romanzo di Stefano Santachiara, pubblicato per Amazon. 

Siamo nel 1918 e Elena è sposata a un uomo, per lei, ripugnante, Goffredo. Un uomo ricco e potente. È nelle stanze di una casa enorme, che inghiotte non solo i personaggi ma anche il lettore, che l’avventura di Elena prende il via scatenando una specie di tasselli componibili in un mosaico esteso nello spazio e nel tempo. Che spirito, Elena! 

Ci si ritrova catapultati in una dimensione quasi onirica, cosparsa di svolte e di incontri e di nuovi spazi da conquistare, di ostacoli da superare. È un vortice quello che apre Elena con la sua fuga. 

Dal punto di vista stilistico, troviamo una narrazione pastosa, le parole sono state scelte con cura, l’ipertesto è ricco e restituisce un tessuto che va al di là della storia immediata di Elena. 

Il fatto curioso, però, è la scelta di Stefano Santachiara di affidare La purezza del serpente non all’editoria tradizionale, bensì all’autopubblicazione

Stefano Santachiara non è affatto nuovo nel panorama editoriale italiano, le sue scelte — si deduce — erano più di una. Infatti, Santachiara è giornalista d’inchiesta, ha indagato sul malaffare pubblico e privato e sugli scempi edilizi e sulle collusioni mafiose in Emilia Romagna per varie testate. Penna de «il Fatto Quotidiano», le sue indagini sono state riprese poi da Report. Per Chiarelettere, ha publicato I panni sporchi della sinistra. 

Resta il fatto che, il suo romanzo lo ha affidato al colosso americano che, da qualche anno, è sbarcato anche nelle librerie fisiche. Un tempo, l’impossibilità di vendere attraverso la libreria rappresentava un punto a favore degli editori indipendenti nella lotta contro Amazon Publishing. 

Tuttavia, il fenomeno dell’autopubblicazione non è nuovo in Italia, ma, solitamente, veniva scelto da una determinata tipologia di narrativa, per lo più rosa, che si dimostrava essere anche danarosa, stando alle testimonianze di alcune scrittrici che con l’autupubblicazione hanno raggiunto un discreto successo di vendite. 

Negli Stati Uniti, per esempio, il fenomeno è così diffuso che autori come Jennifer L. Armentrout sono diventati casi editoriali. Di lei, Forbes ne parla come di una scrittrice di best-seller, un’impresa straordinaria, definendola come autrice ibrido, cioè che pubblica sia con le case editrici tradizionali sia in selfpublishing. I suoi libri autopubblicati sono rimasti nella top ten di Amazon, e non solo, per diverse settimane, un successo non ancora raggiunto dai romanzi pubblicati dalle grandi case editrici americane. (L’autrice, in italiano, è pubblicata da Nord Edizioni.)

In Italia, uno dei casi più sorprendenti è quello di Riccardo Bruni che nel 2016, con La notte delle falene, finisce allo Strega e poi pubblicato, l’anno dopo, da La nave di Teseo. 

E allora, chissà che la storia di Elena non si annoveri tra i prossimi casi sorprendenti.  

(Irina Francesconi Turcanu)

Link all’articolo di BOOKSITTER: la purezza del serpente – booksitter

L’articolo è sparito dal blog dopo poche settimane. Interpellata via Messenger, la giornalista ha spiegato:”Sono stata costretta a chiudere il sito per dedicarmi ad altro”.

Il nuovo racconto: “La purezza del serpente”

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Ci siamo, “La purezza del serpente” è arrivato all’ultima riga. Desidero ringraziare coloro che hanno reso possibile questo nuovo racconto, un’avventura di fantasia calata nel contesto del 1918, vale a dire studiosi che mi hanno fornito documenti storici, amici e conoscenti che hanno permesso alla mia ispirazione di prendere forma e hanno scattato meravigliose fotografie. A proposito, fra pochi giorni saranno inserite nelle pagine finali del libro alcune foto di animali e paesaggi! Per anticipare alcuni spunti della storia li associo agli amici, ma in ordine cronologicamente sparso, per non spoilerare.

Giacomo Bertoni, responsabile di filiale del Credito emiliano e consulente finanziario, amico dai tempi del liceo, compagno di mille giochi (su tutti quelli da tavolo Diplomacy, Axis and Allies, calcio e tennis) e avventure

Mentre il dolore veniva lenito dalle carezze, le venne spontaneo di baciarlo. Le gote calzavano la maschera veneziana, dunque Elena spostò le labbra sul lembo vicino all’orecchio. Il colorito della pelle era appena abbronzato; il sapore inebriante, forse per la combinazione fra la salsedine e un sublime profumo orientale. Il capitano s’alzo bruscamente. “Che si sia ritratto per il mio gesto audace?”. Non lo seppe mai. Dietro di loro si erano avvicinati tre pirati. Scambiarono alcune parole in italiano, altre in spagnolo, altre ancora in un idioma intraducibile. Avendole pronunciate un marcantonio biondissimo, Elena ipotizzò una lingua scandinava.

Annalisa Luppi, istruttrice di nuoto a Carpi; amante della natura, dei delfini e dei cavalli in specialmodo; amici fin dai tempi del liceo, in questi anni abbiamo condiviso biblioteche, gite in canoa e concerti.

Stava per andarsene e lasciare il querulo Goffredo, quand’ecco che un flebile nitrito richiamò la sua attenzione. Era un cucciolo nascosto dietro una bellissima cavalla, utilizzata per gli spostamenti con la carrozza. “Lui! Voglio lui! Come si chiama?”. Il marito, rinfrancato per l’entusiasmo della moglie, s’inventò un nome su due piedi: “Publius!”. “In latino?” “Certo! Non sai che la mia dinastia è in parte etrusca e in parte romana? Orbene, devi sapere che l’imperatore Augusto…”. Elena lo interruppe provvidenzialmente. Non avrebbe retto altre lezioni sull’albero genealogico, più presunto che vero: “Ascolta, io mi prenderò cura di Publius, contento?”. L’uomo fece per abbracciarla da tergo ma avvertì un dolore acuto alle parti basse: “Ahia, che male! Come ti permetti brutta…?”. Goffredo credette di aver subìto una gomitata o un calcio all’indietro da Elena. Invece era stato il cavallino a sferrargli una zoccolata nel punto più sensibile. L’uomo lo intese un momento dopo, sedendosi per recuperare il fiato, allorché Elena e il suo pony erano già distanti. Gli saltò in groppa pur avendo scarsa esperienza. Da ragazzina aveva letto diversi racconti di ippica, anche sulle corse e sulle scommesse, ma incontrò solo il ronzino del mugnaio: nella fattoria dove prestavano servizio il padre e gli zii allevavano soltanto mucche, maiali e galline. Lo sguardo di Publius, che percepiva le sue emozioni più recondite, non l’aveva mai immaginato. Divennero inseparabili.

Mirko Rizla, amico cilentano con cui condividiamo alcuni interessi e giochi, il nostro prediletto è la “parola del giorno”, che consiste nel ricercare un termine arcaico e denso di significato per poi stupirci nel percorso etimologico

Nel sottoscala da cui si accedeva alla biblioteca, invece, era appesa una crosta che la inquietava: vi era raffigurato un uomo dall’espressione abietta, il volto tondeggiante, la folta barba nera e una benda sull’occhio destro. Mancava la firma sulla tela, segno che il pittore ne aveva disconosciuto la paternità. Quando scendeva con la candela nella penombra provava una sensazione straniante, come se il soggetto del quadro la stesse guardando. Intravvedeva qualcosa di pulsante, un principio di luccichio tetro nelle pupille. Era il riflesso della fiammella, ma pareva che si fossero mosse al suo transito. Allora accelerava, faceva marcia indietro e ripassava, la volta seguente cercava di distrarsi. Tutto inutile. Il tambureggiare sordo dei cattivi pensieri era sempre lì.

Daniele Ricci, mio principale Cicerone sull’isola d’Elba questa estate, i suoi ricordi e le magiche fotografie sono stati fonte di ispirazione inesauribile

L’elbana continuò specchiandosi nella pietra preziosa: “Qui ci sono luoghi fatati, inaccessibili”. “Relitti sommersi?”. “ Quando eravamo bambine io e la mia migliore amica, stanche di stare sulla riva ad aspettare, ci impossessammo di una barchetta”.
“Wow”.
“Eh, alla fine ci prendemmo una sgridata che ci ricordiamo ancora. Ma ne valse la pena. Remavamo con la forza di due mocciose, praticamente zero. Così fu soprattutto il vento a trasportarci”.
“Dove arrivaste?”.
“Nei pressi dello scoglio isolato, nella zona nord occidentale. Eolo decise di infilarci in una grotta segreta, quasi totalmente sommersa. La barchetta era alta un metro, giusto lo spazio tra le rocce e l’acqua… Noi ci abbassammo e spalancammo la bocca…”.

Sonia Bellucci e David Sarcina, Livorno, ma dovrei dire Calafuria, dove ci siamo conosciuti a pochi passi dal luogo famoso per il film “Il Sorpasso”. Sonia lavora, David fa il casalingo e coltiva la sua passione musicale; insieme mi hanno insegnato che con pazienza e sensibilità i gabbiani possono fidarsi di te al punto da diventare amici.

Pur non avendo una briciola di pane, la ragazza distese il braccio verso il mare aprendo il palmo della mano. Un gabbiano emise un garrito e iniziò a roteare nell’aria. Sebbene la traiettoria lo mantenesse ad una certa distanza, Elena ne colse l’intendimento: “Vuole venire da me”. Si sentì speciale. Non aveva fatto altro che sporgere una cinquina, mentre tutto l’equipaggio agitava le mani da ore. Sulla destra del galeone alcuni delfini nuotavano in superficie. Il gabbiano scese sotto il livello della nave rasentando l’acqua e sfiorando i mammiferi. Elena li contemplava beata, respirando l’aria frizzante. Era la privilegiata spettatrice di un balletto incantevole: “Qui, ora, il cielo danza con il mare nello spirito di due nobili esseri viventi”. Chiuse gli occhi ascoltandoli: le onde cullavano i fischi dei delfini e i versi del gabbiano. La sua mente vagava in una dimensione parallela, le sembrò di udire i flauti e i violini, Mozart e Beethoven, di percepire la sostanza della natura risorta dall’elemento primordiale.

Massimo Manfredi, Pietrasanta, ideatore di un progetto di fattoria didattica per ragazzi disabili appena fuori dalle mura della città d’arte; ora ci sono gli struzzi, poi arriveranno anche i daini e altre specie

L’orso digrignò i denti emettendo un terribile barrito, poi avanzò di un paio di metri. Era sul punto di sbranarli, la ragazza gli guardava la poderosa mandibola, pensò al dolore che avrebbe provato. L’orso però inspiegabilmente si voltò all’indietro, distratto non si sa da cosa. Il bestione stava affrontando un essere sfrecciato a velocità incredibile, alla stregua di un cavallo scuro nella notte. “Cos’è quel grosso pollo nero?”. Si trattava di uno struzzo, l’uccello più alto del pianeta, scattante e gagliardo ma incapace di volare. Alcuni esemplari erano stati importati a Firenze a metà dell’Ottocento dal figlio di un ricchissimo ambasciatore russo. Tutti li sapevano in cattività negli zoo, ma non era improbabile che qualche struzzo fosse fuggito per riprodursi nella selva. Nei paraggi Elena notò voluminose uova, proprio dietro il cespuglio da cui era spuntato l’orso. Lo struzzo, che era un maschio, evidentemente le stava covando. In quella specie animale è la femmina a viaggiare libera lasciando al proprio compagno il compito di prendersi cura dei pulcini. E che cura! L’uccello, preoccupato per le uova, era accorso a spron battuto ad onta della stazza dell’orso, mettendolo in fuga con una rapida serie di beccate. Agli occhi di Elena quel “grosso pollo nero” era l’erede del Tirannosauro, la sua evoluzione naturale.

Jessica Bianchi, responsabile redazionale del “Tempo”, e autrice con Antonella De Minico de “Il silenzio delle campane”, libro sulle reazioni e le tracce a Carpi del devastante terremoto del 2012. Ama le persone che sanno ascoltare, le donne coraggiose, un buon bicchiere di vino e il vento sulla faccia. La nostra amicizia risale agli inizi di entrambi nei giornali a fine anni ’90, è sua la foto del retro della copertina, scattata durante la vacanza sull’Elba.

Lo sfruttamento dei lavoratori si era ridimensionato, Elena aveva concesso pause maggiori e paghe più sostanziose, anticipando persino le rivendicazioni che i sindacati avrebbero avanzato altrove negli anni a venire. Ne conseguirono immediati benefici nei raccolti e nella commercializzazione dei prodotti. Butteri e contadini erano meno angustiati, nei loro occhi, sempre stanchi e timorosi, si percepiva un velo di leggerezza ritrovata. Elena, che si alzava sempre al sorgere del sole, li salutava mentre sfilavano coi forconi e gli animali per andare nei campi, e li accoglieva gentile al tramonto. Ma al centro dei suoi pensieri non stava l’economia, o piuttosto quel rivoluzionario modo di intendere i rapporti di lavoro che aveva inaugurato a sua insaputa. L’apatia che la attanagliava in quella condizione agiata e di relativa libertà era incomprensibile. In primo luogo a se stessa. E non mutava col trascorrere dei giorni, delle settimane, dei mesi. Aveva perduto interesse per l’arte, la musica, la letteratura, il teatro. Specchiandosi in una goccia sull’agapanto si domandava il senso. Non sapeva neanche più se, quel frammento iridescente sul petalo, fosse effetto della rugiada oppure un dono del suo occhio.

Luca Giannecchini, Lido di Camaiore, attore di teatro e informatico esperto: mi ha aiutato a resettare il computer infestato da virus e si è appassionato all’avventura del libro, suo figlio ha comperato una settimana fa non una, ma due copie de “I panni sporchi della sinistra”, edito nel 2013!

Lo smeraldo dei suoi occhi non la metteva in soggezione, magari indicava una certa irrequietezza ma era assolutamente puro. Lo riconosceva dal fischio, forte e prolungato, con cui amava chiamarla a giocare o salutarla dopo una giornata nei campi. Partiva all’alba, stando attento a non svegliarla, con solo un po’ di frutta nelle tasche e rientrava al tramonto. Sempre con la stessa camicia beige a maniche corte, i pantaloncini e i sandali spelacchiati. Lei gli si gettava al collo, le piaceva tastare i muscoli e pure l’odore della vecchia giacca sgualcita, che si scoloriva col passare delle stagioni. Luca le era apparso come un gigante delle fiabe fin da poppanti, l’aveva presa per mano e non l’aveva lasciata mai. Nelle piccole gioie e nei dolori che i bambini provano per mancanza di attenzione degli adulti. E poco importava, a Luca, se era sempre la sorella a vincere il bignè.

Elisabetta Morandini, Forte dei Marmi, friulana di origini canadesi, ha frequentato la scuola Altieri, lavorato come modella e hostess, è appassionata di arte in tutte le sue forme, adora il mare e il tennis. Ci siamo conosciuti sull’Elba, in un forno col pane ai cereali, mi sovrastava con la sua simpatica bombetta nera. E’ sua la foto di copertina.

A inizio secolo Elena attendeva con la sacralità di un rito la mattina della domenica, quando zia Genoveffa la portava con sé. L’ingresso nella bottega era una gioia paragonabile all’accomodarsi nel loggione d’onore per Madama butterfly. Nemmeno avesse il binocolo da teatro, i suoi occhi azzurri individuavano tutti i colori dei pasticcini, ordinati e perfetti come i soldati che vedeva sfilare per le strade con la banda musicale. Elena li pregustava attraverso un girotondo dei sensi e della fantasia: il fiuto dei primi odori le porgeva un pennello immaginario con cui anticipare il confezionamento dei dolci e il primo contatto manuale; il fruscio della carta poteva essere un’onda marina o un vento leggero che disegnava arabeschi sulle nuvole del piacere. I bignè.

Patrizia Gucci, designer, pronipote di Guccio Gucci, fondatore della maison che ha portato nel mondo lo stile italiano; si è occupata delle relazioni internazionali per il gruppo cominciando dalle mansioni più umili come tradizione di famiglia, è appassionata di archeologia e di letteratura, da qualche tempo collega mi onora della curiosità per il lavoro svolto.

Elena possedeva un personalissimo gusto, anche se non lo ostentava affatto, persuasa che la moda fosse una deminutio entro cui relegare l’attività femminile. Si levò gli stivali per rilassarsi meglio. Addocchiò un paio di forbici e dispiegò il talento: il panno divenne una sottana sbarazzina, che legò con una corda da ormeggio. Coordinata al nero della blusa ormai senza maniche le infondeva un’immagine grintosa, ma anche elegante come un’antica tunica romana.

Lara Comi, vicepresidente del Ppe, ci siamo conosciuti durante lo studio e la scrittura del libro ‘I Panni sporchi’, abbiamo in comune la passione per il calcio (lei gioca, io non più, e tifa il Milan come me) e per le bellezze del nostro Paese. Lara è stata premiata come miglior europarlamentare, ha sempre sostenuto il made in Italy, adora leggere e ha il raro pregio di saper cogliere in profondità.

Cominciò a rassettare, lieta che il fratello fosse lì: “Sta sorridendo, sicuramente sogna”. Ripensò alle nottate d’infanzia sullo stesso saccone ripieno di paglia, un giaciglio stretto e scomodo la cui sola praticità era il ricambio di imbottitura la mattina: “Bastava livellare uniformemente la paglia con un’asta di legno infilata nel saccone tramite le tasche. Anna e Piero impiegano un quarto d’ora almeno per rifare i letti”. Luca si sdraiava supino, ma teneva le gambe dritte per lasciarle lo spazio. “Dormivo spesso per prima, dandogli la schiena. E meno male: se attaccava a russare…”. Accese il sorriso: “Sperimentavo la qualunque! La molletta sul naso era chic, ma non serviva a nulla. Idem le spintarelle, l’unico rimedio efficace era farlo rotolare sul fianco. Se non era sufficiente usavo i tappi per le orecchie”. Ciononostante il saccone era il momento più atteso: “Ci sentivamo come due pulcini che rientrano nel guscio dopo ore di tribolazioni, angherie diurne nel pollaio. Luca mi faceva addormentare raccontando la sua giornata nei campi, soprattutto gli scherzi agli adulti”. Il fratellone si nascondeva fra le spighe di mais per consentirsi un bagno al fiume. Si denudava, nuotava fra i paperi e si rivestiva svelto spacciando la pelle bagnata per sudore. “Non so se fosse tutto vero, ma io amavo la sua leggerezza, la capacità di non lagnarsi per la fatica e i postumi del duro lavoro”.

Sabina Guzzanti, attrice romana. Ci siamo conosciuti nei primi anni Duemila attraverso il mio direttore Marco Travaglio, con cui presentava bellissimi spettacoli di satira. Due anni fa ha creduto nel progetto del film sulla meravigliosa vita di Lou Salomé, una personalità che penetra dentro tutti i miei lavori. Non si molla!

Strascicava la lunga vestaglia con noncuranza. Ogni stanza era preceduta da una scultura in marmo: condottieri romani, divinità greche. Cosa avrebbe dato da bambina per averle fra le mani, o anche solo nelle proprie fantasie, mentre parafrasava i poemi omerici? Ora invece le esaminava con freddezza. Nessuna delle opere, scovate dal marito durante qualche asta o presso mercanti d’arte, le trasmetteva emozione. Maggiore attenzione concedeva ai quadri, nature morte che offrivano un punto di vista, scorci agresti dell’entroterra. Elena avrebbe desiderato dedicarsi alla pittura, ma era sicura di non possedere quella speciale attitudine. Da quando Chiara le regalò la scatola dei colori ad acquerello, lei diede libero sfogo all’estro: intingeva le mani con mille idee in testa ma poi non osava ritrarre persone, oggetti, paesaggi; mescolava tante sfumature disordinatamente, come un flusso di pensieri senza filtro, trasfigurando l’acqua nel fuoco, l’aria nella terra. Che il suo spirito selvaggio avesse trovato un canale per esprimersi pienamente? Elena rinunciò a comprenderlo: smise di disegnare poche settimane dopo la partenza di Chiara.

Angelo Martinelli, giudice e scrittore, ci conosciamo dal primo giorno di lavoro nel giornale di Modena, quando mi concesse un’intervista. Adoro i suoi libri, ma più ancora le sue immagini evocative. Cosa pensa uno struzzo, che come una donna di Modigliani ha gli occhi lontani dal cuore? Angelo mi perdonerà se dedico questo passaggio del libro non allo struzzo ma ad una farfalla aliena che brillava nella notte. Il primo giorno era azzurra, nella città bianca e nel brindisi era di mille colori, infine nel mare, guardando il cielo, si specchiava. Non volerà mai più qui ma è un ricordo incancellabile.

La ragazza estese il sorriso come una farfalla aliena che brilla nella notte. Un effetto mirabile che le luci soffuse incorniciarono, tratteggiando i delicati e forti lineamenti. Su quella sedia di castagno la silhouette pareva già una scultura, il collo affusolato l’elevava oltre le fiammelle del candelabro, ma quel batter d’ali, ossia di ciglia, era l’incanto che concede all’arte di vivificarsi; ad Elena di scintillare con la sua iridescente azzurrità.

Mi scuso con quanti non ho citato, vado a memoria ringraziando Raffaella Brignoli, responsabile della Biblioteca di Piozzano, Silvano Nannini, professore di Letteratura studioso di Dante, Giuseppe Pallini, medico di Firenze, l’allenatore Alessandro Pistolesi, le calciatrici Francesca Papaleo, Giulia Mastalli e Rachele Baldi, Giuseppe Recupero, proprietario dell’appartamento in cui risiedo e responsabile dell’ambulatorio medico di Pietrasanta, Alessandro e Grazia, esperti di fumetti e grafici provetti romani, la scrittrice elbana Daria Giuffra, gli attori friulani Paolo Massaria e Claudia Blandino, e l’interprete veneziano Giambattista Rizzardo protagonisti dell’audiolibro di Corpo, la regista di Mirandola Sandra Moretti e le sue allieve Miriam Treglia e Agnese Negrelli, il regista Francesco Guida e il musicista Antonio Sessa di Castellabate, il carpigiano Stefano Stradi, il ferrarese Lucio Russo, gli altri interpreti e tecnici di Corpo pronti a tornare al lavoro.

Audiolettura di Corpo, terzo frammento

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Il parco archeologico di Apanestum si trovava su strada per l’università, dunque Monika acconsentì a visitarlo. Se Charles appariva rigenerato dall’atmosfera densa di storia ellenica, lei era più raggiante che mai. Passeggiavano fra le rovine come due alieni, isolati dal resto dei turisti, non soltanto le comitive che si aggregavano alle visite guidate ma anche le famiglie e le coppiette autoctone. Come fossero giunti dal passato o dal futuro, si esprimevano ora in greco e in latino, ora in inglese e in francese, centellinando aneddoti epici. Nei pressi del tempio di Athena, transennato dopo alcuni danneggiamenti, lui commentò da perfetto cicerone: <<Questo edificio fu consacrato venticinque secoli fa… Impressionante vero? I greci realizzarono le colonne con l’arenaria estratta da una cava sommersa nella scogliera alle pendici del colle che si vede dal Castello del Frate. E’ quel bosco incontaminato da dove sei arrivata, ricordi? Ha un non so che di mistico, non ci vive nessuno, solo il mare che batte sui faraglioni e tante specie animali. Io lo trovo un po’ inquietante, si dice che vi trovassero rifugio le streghe, ai tempi della Santa Inquisizione: orge inenarrabili, contatti mefistofelici con l’aldilà… Chissà se si era palesata anche Athena, magari assumendo le sembianze di una civetta. Lei, la dea della guerra e della saggezza…>>. <<Della giustizia>> lo corresse Monika, che non condivideva il suo punto di vista sulla presunta stregoneria perseguitata dalla Chiesa. <<Sì, era la protettrice di Ulisse. Gli prestò il casco di Davide per non farlo riconoscere dai Proci, che infestavano Itaca senza pietà per donne e bambini, e il suo arco benedetto… Ah, se Athena scendesse qui, oggi, e m’infondesse l’ispirazione, il coraggio… >>. L’uomo soppesava le parole: <<Solo grazie ai suoi influssi, Ulisse riabbracciò Penelope. Attese venti anni…>>.  La ragazza preferì indulgere alla celia: scavalcò la recinzione e si mise a saltare nel tempio. Charles non ebbe la forza di rimproverarla né di seguirla, eppure il suo cuore palpitava più forte di quello di Monny.

Ella raccolse un bastone e lo fece roteare, poscia vivificò la divinità: <<Achei, sono Pallade Athena, la vostra padrona. Vi ordino di sbaragliare i Troiani!>> gridò conficcando a terra la lancia di legno per poi celarsi dietro una colonna. Charles era l’unico privilegiato ad assistere alla pièce. <<Ora che il nemico è vinto, rendetegli l’onore delle armi. Basta violenza, basta arroganza… E non pensiate di molestare le donne, o vi giustizierò con una folgore>>. Incedendo, con la mano rivolta al regno di Zeus: <<O mortali, coltivate l’intelletto, godete della grazia nelle arti e nella natura>>. Lo scrittore, oltremodo partecipe, esalò un sì. La ragazza accennò un inchino, riunendosi all’amico. <<Cosa ti suscita il tempio?>> <<Il senso di potenza femminile>>. Charles trasalì. Il modo con cui lei s’imponeva nei discorsi, illuminandoli e chiudendoli, o rigirando i temi secondo la propria visuale, per un verso lo scombussolava, per l’altro incendiava la sua passione. L’uomo cercò di dissimularla invitando l’amica a visitare il tempio di Poseidone: <<…il grande persecutore di Ulisse…>>. Monny, che pure amava il sapore epico dell’acqua, ebbe una sensazione straniante: immaginare Odisseo oppresso dall’energia creatrice del mare le scatenava un turbinio interiore. Così, specchiandosi nel sole di mezzodì, spiccò il volo: <<La mitologia ellenica è un ricchissimo sciame di fantasia>>. << Di meteore o di api?>>. <<Di miele>>. <<Che visione melodiosa>> <<Sì, è un tesoro inesauribile>>.  <<Destinato a durare nei millenni>>. <<Per sempre>>. Charles e Monika intrecciarono istintivamente le mani. Egli fiutava di nuovo quel suo profumo di rosa, la desiderava con ardore. Ella ridivenne il bocciolo, le sue pupille brillavano come gocce di rugiada, le labbra erano soavi petali.

Si erano calati nell’identico incanto, dentro di loro risuonavano i violini e i flauti del Valzer. Il tempo si era fermato, come se la natura stesse vagheggiando vere e proprie affinità elettive. Allorché lui socchiuse gli occhi, approssimandosi adagio, l’attimo si dissolse in un batter d’ali. Gli schiamazzi di un drappello di visitatori li investirono come una frotta di afidi e Monika scivolò via. Le mani e la bocca, oramai, erano petali al vento. La ragazza avanzò di scatto per eclissare le emozioni, ma ben presto si rese conto di essere la prima a non comprendere il proprio turbamento. L’unica reazione esterna era stata imbarazzante: davanti al volto scosso di Charles le era spuntata un’espressione sardonica, come se fosse diventata arguta spettatrice dell’ironica sorte, compiacendosene. <<Perché lo schernisco? E’ stato dolcissimo… Forse rido dell’amore?>>. Lo sguardo dell’uomo era risucchiato dalla sua schiena imperiale: l’ombra muliebre, assottigliandosi fino al tempio di Athena, si mostrava sopraelevata rispetto alla colonna. Monny disperse l’uragano dell’inconscio e, girandosi lieta, riprese a dialogare…

Audiolettura di Corpo, secondo frammento

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Sul versante opposto della casa, nella camera degli ospiti, Monika rifletteva supina. Si era coricata senza cambiarsi, subito dopo aver preparato lo zaino. Posizionando il ritratto della madre, ripensava a lei: <<Mamma non è mai stata felice con il generale, eppure non lo ha lasciato e non lo lascerà…>>. Mano a mano le tornavano alla mente i bei momenti vissuti insieme motteggiando sul treno per il mar Baltico, le pallate di neve, alleate con la nonna contro gli uomini di famiglia, le risate a crepapelle in cucina: << Portai a compimento la prima torta, un’installazione ridicola che pencolava, nondimeno rigida come un sasso>>. Le tante volte in compagnia della pittrice nella cantina dei misteri. <<Se ne stava lì, assisa sulla seggiola policroma, ogni tanto si spostava il ricciolo dei capelli che le cadeva sul viso, e dava ai suoi occhi celesti mano libera. Mi dipingeva, ore ed ore. Le piaceva che fossi io a decidere chi impersonare. Favoloso. C’era pure una piccola finestra che si affacciava sul lago Balžis, un paradiso naturale circondato da pini profumatissimi. Con sprezzo del rischio mi concedevo delle fughe… Salivo sul grosso ramo vicino al pertugio e scendevo giù per il fusto! Quel pino era il mio amico, custodiva il nostro segreto, la qual cosa mi faceva divertire doppiamente: credevo che nessuno se ne sarebbe mai accorto! Un giorno però mamma, a tavola, fece riferimento al grande albero e ad una scoiattola astuta che sguazzava nel lago… Lei quindi lo sapeva ma non aveva fatto la spia>>. I ricordi, lontani dalle durezze della vita, erano ancora più teneri e vivi. La genuinità delle sensazioni le rubò una lacrima di commozione. <<Mi sentivo a mio agio in quel vecchio deposito impolverato, zeppo di sorprese…>>. Il contrario della camera in cui si trovava adesso, aristocratica e fredda. L’alta finestra semichiusa e il gigantesco specchio dai contorni in legno dorato, nei pressi del letto, la mettevano in soggezione. Anche per questo aveva spento subito la luce. <<Nella cantina dei misteri diversamente mi addentravo con la torcia, esplorando fra le cianfrusaglie accatastate: il mobile senza un piede, l’orologio a cucù che avevo rotto centrandolo con una biglia di vetro, i libri avvolti nelle ragnatele e quelli negli scaffali più alti, per me irraggiungibili”.

Audiolibri: Corpo interpretato da Paolo Massaria

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Camminava anche quel giorno al ritmo dell’auricolare mentre calpestava per diletto le foglie sul sentiero, quasi a segnare un punto in un moderno videogame importato dall’America. Lo zaino bordeaux, un ricordo di Parigi, le ciondolava sul dorso come se una delicata percussione carezzasse la melodia di Le chic et le charme di Paolo Conte. Monika sceglieva le musiche non in base all’umore ma allo stato d’animo verso il quale sentiva di tendere, erano il preludio e così amava gustare ogni nota, ogni strofa, ogni silenzio. Ugualmente si acconciava la mattina. Se la salopette di jeans, che lasciava scoperte le bianche spalle e metà coscia era funzionale alla scarpinata, la lunghissima e rigorosa treccia sembrava un simbolo epico. Non un archetipo matriarcale o qualche teoria che gli intellettuali potessero confinare in un bolso dibattito sul significato politico e psicologico del look, neppure un’esaltazione estetica delle forme giunoniche sulle quali si accomodava senza malizia. Viceversa, quel serpente che aveva per capelli suggeriva un rapporto di simbiosi con la natura. Ad esempio, nel corso della passeggiata la sua coda si allontanò dal corpo per ficcarsi in un cespuglio: Monika aveva lanciato un bastone nella boscaglia e la treccia, per effetto del movimento, si era avvinta con vigore ad un rametto spinoso. Non c’era verso di staccarla, sicché la ragazza si fece largo con premura nell’arbusto, abitato da tanti piccoli esseri che svolazzavano fra le foglioline ovali. Avvertì un profumo intenso, seguendone la scia scoprì una pianta di rosa nascosta in mezzo ai rovi. V’era un unico bocciolo, in procinto di schiudersi. Invisibile agli animali, quel fiore si presentava di un rosa sì vivo da commuovere. <<Amazement>> sospirò ammaliata nella lingua che per prima aveva imparato in Unione sovietica, studiando clandestinamente testi occidentali. Le capitava non di rado che qualcuno o qualcosa, d’incanto, la riportasse all’essenza. Il momento era sublime quanto sfuggente, benché non fosse in grado di decodificarne il senso, l’accoglieva con letizia ascendente. Proprio come un’artista con la sua opera, arrivava a immedesimarsi nell’oggetto, in un attimo la cui relatività temporale soggiace alle leggi della creatività. Ora Monika sarebbe stata quella rosa per tutte le volte che avrebbe desiderato in futuro, un turgido bocciolo che è sempre sul punto di svelarsi, adornato di minuscole gocce di rugiada, vezzeggiato da buffe coccinelle, baciato da frizzanti api, corazzato di spine necessarie, forse utili a tener distanti gli spiriti maligni, forse letali per cuori vulnerabili. Monika chiuse gli occhi e si tuffò con la totalità del viso nella fragranza, abbandonandosi fra i morbidi petali con estrema delicatezza, come calzasse una seconda pelle di raso rosa.

La libertà che Luna non riesce ad accettare (criptico)

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C’erano una volta Luna e Lupo. Il riferimento è allo scrittore Pietrangelo Buttafuoco (già al Secolo d’Italia, scrive sul Foglio di Giuliano Ferrara, che è contemporaneamente comunista, socialista, berlusconiano, dalemiano, renziano, ora pro Salvini, insomma la quintessenza della politica comandata da Massimo D’Alema), il quale per anni, attingendo a un suo vecchio romanzo, pubblica con una certa frequenza sul Foglio dediche sentimentali a Luna e Lupo. Smette nel giugno 2018, con quest’ultimo messaggio: Luna aspetta Lupo per l’estate. https://www.ilfoglio.it/il-riempitivo/2018/06/22/news/la-luce-del-solstizio-201828/

Ma cominciamo dall’inizio, cioè ad una dozzina di anni fa. Luna è una giovane magistrata, lavora con impegno e dedizione ma è sfortunata, nel senso che che si trova al servizio di una consistente parte politica che coi carabinieri almeno dagli anni ’80 indaga contro i nemici della polizia deviata. Lupo è un ragazzo che, dopo aver fatto esperienze giornalistiche nelle gazzette locali e in radio, comincia a scrivere per un quotidiano nazionale, la sua carriera è in ascesa, pubblica anche un libro sulla corruzione di alcune parti importanti del sistema politico. Fra Luna e Lupo nasce un’amicizia forte, che cresce con la frequentazione lavorativa, nella quale rientra anche un’inchiesta di Luna, sostenuta da Lupo, che sfocia in un processo poi perduto su un caso legato alla polizia deviata. Inizialmente è Lupo a provare un sentimento che va oltre l’amicizia per Luna, che è fidanzata e fedele. La loro frequentazione si dirada col tempo e si interrompe per via del trasferimento di Luna al Sud, da dove segue il processo in applicazione extradistrettuale, ma l’amicizia si mantiene solida. Nell’estate 2015 Lupo si reca nella zona di Luna per un dibattito pubblico, lei lo va a trovare alla fine dell’incontro. Nel mese di agosto, mentre Luna è col fidanzato, Lupo si gode l’arte dei luoghi. Un giorno incontra Stella, una filologa inglese che studia le origini della sua lingua nelle radici normanne (diffuse nelle isole inglesi intorno al 1000) e ama viaggiare nello spazio e nel tempo. La dimensione del loro incontro è magica, irripetibile, come quella che soltanto la casualità del destino può regalare. Trascorrono giornate meravigliose: il barocco e le rovine, i sorrisi a cena, il giorno dopo al mare, gli spruzzi e i giochi, la sera nella città bianca di Ostuni, i progetti e i sogni, le luci e gli sguardi, la delicatezza dei suoi mille colori, la notte d’amore, e poi le grotte marine, il raccontarsi le proprie vite, gli amici e la sua adorata nonna. Lupo trova in Stella l’unicità dell’amore. Forse anche lei. Stella riparte per il nord, dove l’aspetta la cattedra ottenuta grazie ad anni di sapienti ricerche. Negli anni resteranno in contatto a distanza in modo gioioso, senza pretese illusorie, la loro amicizia brillerà sempre anche durante le frequentazioni di altre persone, come quando Stella vivrà una nuova relazione, poi finita.

Ma torniamo a Luna. Nell’estate 2015, non è chiaro se da sola o se grazie a qualcuno, trova le prove telematiche dei tradimenti del suo fidanzato, sicchè lei lo lascia. A fine gennaio 2016 Luna e Lupo si telefonano e concordano di rivedersi l’estate seguente, anche perché Lupo sta scrivendo un libro sulle donne protagoniste nelle rispettive professioni, un volume che con l’ausilio di antropologhe e storiche spiega la trasformazione della società patriarcale e l’impegno progressista delle donne fino alla lotta partigiana. Luna, passeggiando in riva al mare, lontano da possibili “ascolti”, gli propone di scrivere un libro a quattro mani sul caso della polizia deviata. Sono contenti naturalmente di trascorrere tempo assieme ma mentre per Lupo si tratta solo di amicizia, per Luna è scattato qualcosa di più. Lo vuole tutto per sé, gli dice che quella sua villa è troppo vuota per una persona sola, a fine estate vorrebbe che Lupo non tornasse nella sua abitazione; quando lui parte, lei lo aspetta l’estate seguente. Ci sono segreti e bugie nel lavoro di Luna, che ha rapporti con la politica, va spesso nella città di Buttafuoco e in aereo con D’Alema, ma il suo cuore sembra sincero. Il problema è che Lupo non è innamorato di lei.

Durante un viaggio verso la Sicilia per un weekend con Luna e un gruppo di amici, Lupo, vedendo un’immagine artistica, ripensa a Stella. Anche se ormai si trova in hotel a pochi passi da Luna, sente il desiderio di scriverle. Stella è felice di risentirlo, poche settimane prima lo aveva esortato a vincere la fobia dell’aereo e a viaggiare perché “la vita è un’ostrica e va vissuta fino in fondo” . Quando Luna arriva, pochi minuti dopo, saluta Lupo che ha appena detto ciao a Stella via messaggio. Luna biascica con sarcasmo uno strano saluto: “Wonderful…. “. Lupo non ci fa troppo caso sul momento, anche se Luna non ha mai parlato in inglese in vita sua. Il weekend procede serenamente. Al rientro Lupo e Luna continuano a frequentarsi, lui comincia a raccontare le storie delle persone reali, la bellezza artistica, sviluppa la creatività nelle sue molteplici forme. Luna esprime il suo fastidio, non vuole che Lupo cambi settore lavorativo. Quando festeggiano il compleanno di lui, Luna fa un altro tentativo ma il cuore di Lupo è altrove: si accorge di una dedica artistica che Stella ha creato per lui e torna felice come non mai. Il loro amore, mai appassito, sta rifiorendo. Luna nei giorni seguenti telefona a Lupo prima della consueta uscita a cena, gli dice che è contrariata e resta a casa. Lupo dentro di sé pensa: “Meglio così, ha capito che sarà sempre solo un’amica”. E’ il novembre 2017, Lupo riparte per il nord. Luna però, anziché mollare, diventa pressante, lui le fa capire che non tornerà più l’estate in Puglia per non illuderla. Il sistema politico-mediatico che lo ha elogiato per anni perché considera Lupo, meglio se legato a Luna, una pedina da usare contro i loro nemici, diventa un ostacolo al suo lavoro. La dinamica è chiara: dai “rabbiosi” locali ai pariolini radical chic ai dalemani amici di Luna, tutti quanti, ciascuno in modo differente, gli fanno capire che se non scrive o non si fa in qualche modo portavoce delle loro congetture contro i loro nemici, Lupo non troverà più spazio. Lui ovviamente rifiuta (non scrive mai ció che non è dimostrato) e non si fa problemi, dopotutto non ha mai considerato le pretese dei politici, sia quando corrotti e inquinatori lo querelavano sia quando organizzatori di eventi e recensori lo lusingavano. Da gennaio 2018, su consiglio dell’ amico drammaturgo Claudio Beghelli, Lupo lascia il giornalismo di inchiesta per seguire la sua vocazione creativa: scrive sceneggiature per il teatro e il cinema, autoprodurrà il primo film, realizza biografie di personaggi storici come una meritevole filosofa russa e il suo romanzo d’esordio va a gonfie vele. Tutto sembra bellissimo anche perché pensa a Stella. Sapendo di essere “ascoltato” da molti anni (dall’inizio dell’inchiesta di Luna, e da ambedue le parti, del resto è normale per i giornalisti conosciuti a livello nazionale) nell’aprile 2018 decide di scrivere una lettera cartacea a Stella per chiederle di rivedersi. Sì, il suo cuore batte ancora per quel lungo appassionato bacio di arrivederci. Stella risponde gioiosa a fine aprile, desidera trascorrere l’estate con Lupo, ma una montagna di cattiverie frana improvvisamente su di loro. Meteorite, una ex sindaca frequentata superficialmente da Lupo a suo tempo (una mostra e una cena di partito cui Lupo va con l’amico Giacomo Bertoni e sua moglie Daniela nel 2014) a inizio maggio si reca lassù da Stella con alcuni politicanti, finge di incontrarla per caso, inventa fake news su Lupo. Non avendo prove di ciò che afferma, usa la sola cosa apparentemente credibile (Luna era stata spesso sui giornali intervenendo alle presentazioni di Lupo): spaventa Stella con assurdità come “lui è promesso sposo di Luna, una magistrata che rischia per le sue indagini”. Stella, delusa anche dal fatto che Lupo non si catapulta subito in Inghilterra (ma è per la fobia dell’aereo) a spazzare via con un sorriso tutte le assurdità, decide di non tornare in Italia e nel giugno 2018 gli dice addio. Mentre i politicanti festeggiano, Pietrangelo Buttafuoco (che nel biennio precedente aveva più volte dedicato frammenti del suo romanzo “Luna e Lupo” a magistrata e giornalista nella sua rubrica “Il Riempitivo” sul Foglio) dirada le dediche, scrivendo del “silenzio di Lupo” e della “Presenza di Luna” La corsa di Lupo e Luna, chiamati dal respiro | Il Foglio. Questo è l’ultimo Riempitivo di Buttafuoco, del giugno 2018, appena dopo che si sono liberati definitivamente di Stella. Recita: “Luna aspetta Lupo per l’estate”.https://www.ilfoglio.it/il-riempitivo/2018/06/22/news/la-luce-del-solstizio-201828/ Da quel momento preciso non scriverà più di Luna e Lupo.

In privato vari conoscenti legati alla politica continuano ad esprimere la volontà che Luna diventi la fidanzata di Lupo. Ad esempio il finto ambientalista Emilio Salemme (che negli anni del processo alla polizia deviata, facendo l’amico, invitava Lupo a parlare del caso facendo allusioni ad un Grande Personaggio della massoneria ebraica come poi altri politicanti in contesti sempre diversi: non so se fosse o meno massoneria ebraica, sicuramente la polizia deviata è di matrice nazista) chiedeva spesso a Lupo “come va tra te e Luna? Perché non la chiami?”; l’anziano magistrato Tibis, sodale di Luna, si è presentato all’inizio del 2020 per chiedere a Lupo cosa analoga ricordando le “altissime qualità” di Luna. Lupo non ci pensa neppure, torna a parlare telefonicamente con Luna solo nei primi mesi del 2020 perchè lei pare essersi messa il cuore in pace e lui, fino a quel momento, non pensa che una brava magistrata possa aver tenuto comportamenti scorretti.

Ad un certo punto però, a giugno 2020, Lupo capisce che Luna ha una attenzione morbosa: quando lei, scrivendogli un messaggio, dimostra di sapere cosa Lupo sta facendo in quel preciso momento: gli invia un vocale con una canzone romantica specifica. Lupo ripensa al “wonderful” dopo i messaggi privati a Stella e a tante altre telepatie che gli parevano casuali. Ci riflette con gli amici Giacomo e Daniela, Stefano Stradi, Luisa Mambrini, Annalisa Luppi, Giuseppe Recupero, Roberta Modiani, Daniele Ricci, Luca Giannecchini, la ex fidanzata Loredana Alison, e anche con chi ha lavorato come Giovanni Botti, collega in radio, Luisa Gabbi, sua ex caposervizio ai tempi del giornale locale, e l’avvocato Lorenzo Muracchini, che conosce bene sia Lupo sia Luna. Nessuno ha le prove di intercettazioni illegali e della partecipazione della magistrata alle diffamazioni dei politici, ma per tutti è chiaro che quella di Luna è fissazione, pretesa che Lupo sia suo o di nessun’altra. A quel punto Lupo cerca di far uscire allo scoperto l’astuta Luna: con una risposta cordiale, ma distaccata, consiglia a Luna di non stressarsi troppo sul lavoro, lei pare esaltarsi; quando lui le dice che non sa se scenderà in estate, “se scendo ti avviso, altrimenti ci vedremo al nord se vieni”, Luna risponde: “Siiiiiii”. Lupo naturalmente non scende al sud e continua il suo lavoro creativo, malgrado le censure e i continui raggiri (due compagnie teatrali che avevano già adattato la sua commedia, diversi editori e produttori si rimangiano gli accordi presi) supera i momenti di sconforto (imbrogli professionali e provocazioni di quei soggetti politicanti, dopo la rabbia iniziale, non lo sfiorano più). Nei mesi seguenti si accorgerà di nuovi fastidi ‘lunari’ : ad esempio, proprio nei minuti in cui caricherà su youtube un video di letture con una compagnia teatrale e una studiosa che elogia il suo ultimo racconto (22 agosto 2021), Lupo prima riceverà una richiesta “Cancel Cancel” da un profilo fake e subito dopo Luna gli manderà un messaggio whatsapp cancellandolo in mezzo secondo. “Cosa avevi scritto?“. Nessuna risposta. Come mai infastidita da una bella serata fra artisti e amici? Nell’ultimo anno altre falsità, in modo fintamente casuale, raggiuangeranno una collaboratrice di Lupo. Già nel luglio 2020, pochi giorni dopo il “Siiiii” della magistrata, lui ripensa ai politicanti che andarono a sparlare a Stella e finalmente chiede a Luna se ne sa qualcosa. Lei tace. Non risponde, ma qualche tempo dopo parla d’altro come nulla fosse. Gli amici gli danno i seguenti consigli. La pm: “La politica fa cosi. Di me hanno messo in giro le peggio cose per vendicarsi delle mie indagini sul governatore e sulla cricca. Fortuna che ho un marito che non crede alle loro infamie”. Il giudice Angelo Martinelli: “Si tratta di una vendetta sentimentale. Luna ti pretende suo e cerca di allontanare le rare donne con le quali hai particolare affinità”. Stefano Stradi: “I politicanti trovano senza difficoltà qualcuno o qualcuna che si presta volentieri a sparlare alle spalle: promettono ai tuoi nuovi collaboratori (soprattutto le donne, per assecondare la pazza, ma anche uomini per ostacolarti in generale) un aiutino in ambito artistico, professionale ed economico. Sempre per la solita ragione: non hai accettato la loro magistrata come partner e non scrivi le loro congetture contro i loro nemici”.

Vittorio Macioce, amico caporedattore de Il Giornale, scrive in una recensione del 2021 che la vita di Lupo “è da romanzo”. A Lupo però non interessa raccontare questi avvenimenti rovinando la reputazione di Luna&c, vorrebbe solo che la morbosa infatuazione di Luna finisse e che i suoi sodali politici smettessero di ostacolare, con la solita dinamica foriera di tensioni, lo sviluppo dei progetti lavorativi di Lupo nella narrativa, nel teatro e nel cinema.

Sorelle e fratelli

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Fra pochi giorni presenteremo il pamphlet sul calcio femminile ‘Sorelle d’Italia’. La grafica del libro è stata realizzata da Francesca Papaleo, attaccante dell’Empoli Ladies e grafica professionista, la foto di copertina è di Antonello Campigli, editore Digital Press. https://www.lanazione.it/pisa/cronaca/sorelle-d-italia-il-volume-scritto-da-santachiara-1.5498031

Quale sarà il prossimo libro? Chissà!

“Liberté, egalité, fraternité” (principi della Rivoluzione francese)

“Tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca delle Felicità” (Costituzione degli Stati Uniti d’America)

“Il Papa sente che per rappresentare tutto gli uomini deve cancellare se stesso e allora rinuncia” (Nanni Moretti, Habemus Papam)

Corpo, il romanzo presentato a Vinci

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  • Il 5 luglio si è svolta a ‘l Circolo di Sovigliana, frazione di Vinci, paese del grande Leonardo, la presentazione di Corpo. Ecco alcune immagini
  1. Boom di vendite su Amazon (15mila) e 18 recensioni lasciate dai lettori

In foto l’ultima recensione apparsa su Il QUOTIDIANO

QuotidianodelSud

Lou Salomè, l’audio-video della scena I

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Una vita ricca di incontri e scoperte, viaggi nei principali centri culturali e nella più profonda interiorità. Lou Salomè (1861-1937) attraversa due secoli sublimando ragione e istinto,filosofia e arte, narrazione e psicoanalisi. Spirito libero e acuta studiosa, respira affinità cerebrali peculiari e rapporti ardentemente delicati, laddove il senso di sorellanza non refrena le passioni tormentose degli innamorati, ricambiate solo in rari casi, come quello del poeta Rainer Maria Rilke, di 15 anni più giovane. Una selettività naturale che non le sottrae la preziosa amicizia di intellettuali e avventuriere impegnate nella lotta per i diritti delle donne, da Malwida von Meysenbug a Frieda von Bulow, e l’invisibile filo che la lega alla madre Louise Wilm. Il percorso esistenziale di Salomé si intreccia a quello dei massimi pensatori di fine Ottocento e inizio Novecento, dimensioni illuminate dal genio e dalla meraviglia in un vortice di emozioni e di crescita che spicca il volo a Roma con l’amor fati di Friedrich Nietzsche e si libra gioiosamente nel cuore del vecchio continente. Al culmine di traiettorie ardite soggiunge alla scienza di Sigmund Freud, spingendo sempre oltre l’iridescente curiosità.

Due anni fa scrissi un libro biografico, una commedia sulla vita di Lou Salomè, il nostro progetto di realizzare il film ora si arricchisce: grazie alla collaborazione degli attori Paolo Massaria e Claudia Blandino, e al montaggio di Francesco Guida, abbiamo realizzato l’audio-video della scena I.

Studio di Sigmund Freud, novembre 1912.

Qui trovate il romanzo biografico in forma di commedia:

Corpo, ben accolti il trailer e il romanzo

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Il trailer di Corpo confezionato dal grande co-regista Francesco Guida! A spettatori e televisioni interessate a trasmettere il film ricordiamo che bisognerà attendere alcuni mesi poiché il lungometraggio è iscritto a festival del cinema, che potrebbero saltare vista l’emergenza Covid, ed è stato selezionato all’università del Connecticut dalla prof. di Cinema e Letteratura italiana Monica Martinelli come spunto educativo per le tematiche trattate che sussumono nei gender studies.

Nel trailer scorrono le immagini di alcuni degli interpreti: giovani talenti della compagnia teatrale Fatamorgana di Sandra Moretti, Miriam Treglia e Agnese Negrelli, l’attore di cinema Lucio Russo, il regista stesso, gli attori di teatro Luigi Pascale, Gerardo Bove, Paolo Agresta, nuove promesse come Anna Aversano e Luigi Tramutola, ma non dimentichiamo chi non compare, ossia i bravi Deborah Guercio e Stefano Stradi, le gag divertenti di Costabile Scarano, già in Benvenuti al sud, e naturalmente il compositore di tutte  le musiche del film, Antonio Sessa della Snapbeat.

Ne approfitto per ringraziare i tanti che ci hanno inviato pareri sul trailer e sul romanzo, ricchi di spunti e di indicazioni utili, anche per la preparazione di un sequel. Sui social alcuni lettori hanno pubblicato con post fotografici la copia di Corpo appena ricevuta dal corriere di Amazon, oppure una parte dell’ebook che li ha particolarmente colpiti. Prossimamente farò una raccolta delle migliori opinioni a cui dedicherò sul blog uno spazio personalizzato!

Naturalmente le sequenze del trailer suscitano curiosità senza lasciar trasparire la trama, sono volutamente disordinate, rapidissime e ritmate affinché tutti possano beneficiare pienamente dell’avventura e dei rapporti fra i personaggi. Anche il romanzo non è etichettabile in un genere definito, secondo il magazine Tempo si tratta di una storia psicologica e thriller, un inno alla libertà che vi farà inerpicare “nei meandri mitologici di Paestum e nei misteri di centri medievali, lungo i sentieri di luce fra la verde montagna e l’iridescenza marina, laddove le relazioni umane disvelano l’interiore profondità, fra l’incanto e gli abissi”.

 

Miriamok

Vi lascio un piccolo frammento

… La macchina procedeva piano come la musica classica della cassetta nell’autoradio. Tutti e due l’ascoltavano immersi nei pensieri più disparati. La strada, salendo, compiva il periplo del rilievo più alto. <<Quello è il Castello del Frate>> spiegò Charles senza approfondire la genesi toponomastica del borgo. <<Tra il castello e il campanile c’è la mia casa>>. Era il suo buen retiro, quivi aveva scelto di trasferirsi anni addietro ma non si era mai appassionato alla disputa storica e religiosa che divide le grazie d’altura da quelle marine. Di lassù, ormai prossimi alla villa, scendendo con gli occhi potevano ammirare un <<colle interamente verde>>, prima base greca via via miracolosamente scampata alle devastazioni di guerra e ora alla cementificazione del Belpaese; il porto e le pinete, i faraglioni e le grotte marine oltre le quali aleggia il mito di una sirena dell’Odissea. Mentre l’uomo era intento a sistemare l’auto nel parcheggio Monika ruotò verso il mare, espanse il sorriso come una farfalla sugli alberi in fiore che si stagliavano sul panorama. L’impulso era di correre sull’orlo del burrone per tuffare lo sguardo nell’infinito, ma si contentò di stendere il collo lungo e affusolato per alzarsi sulle punte. Come per magia, dominava l’uomo in altezza. <<La casa è nel parcheggio?>> disse ilare. Al suo cospetto, Charles rimase senza respiro. Il viso di Monika, candido e fiero, combaciava con il sole calante sulla linea del blu.

 

 

 

 

Corpo, il romanzo ispirato al film

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Care lettrici e cari lettori, è giunto il momento di donarvi l’inizio del romanzo Corpo. Soltanto un attimo  di pazienza per spiegarvi che la fonte di ispirazione è stato il film girato la scorsa estate. I ringraziamenti nei titoli di coda del lungometraggio sono davvero tantissimi, per cui rinvio al precedente post con frammenti del set https://stefanosantachiara2.wordpress.com/2020/01/31/corpo-il-nostro-film-sara-proiettato-nelluniversita-del-connecticut/ .
Per quanto riguarda il libro una menzione speciale merita Costantino Vassallo, architetto e scrittore con la passione per il cinema, autore dell’interessante saggio Drive e le strutture distopiche. E’ stato Vassallo a suggerirmi l’idea, al termine della riprese di Corpo, di creare il romanzo. Forse perché, sfogliandolo, vi inerpicherete nei meandri mitologici del Parco Archeologico Paestum e nei misteri di centri medievali, lungo i sentieri di luce fra la verde montagna e l’iridescenza marina, laddove le relazioni umane disvelano l’interiore profondità, fra l’incanto e gli abissi. O forse perché i dettagli realistici della narrazione traggono linfa da luoghi, sguardi e punti di osservazione, ma anche dagli stati d’animo e dagli interscambi fioriti in modo spontaneo durante i ciak tra attori di teatro e tecnici del nord e del sud. Segnalo in particolare i giovani talenti campani Francesco Guida, co-regista, responsabile del montaggio, già vincitore del festival internazionale di Salerno vent’anni orsono; l’assistente tecnico Enrico Nicoletta e il compositore delle musiche Antonio Sessa. Gli attori e tutti gli altri componenti del cast e della troupe li conosceremo via via che andremo svelando anticipazioni della storia, rigorosamente piccole e iniziali. Non solo perché contrari allo spoiler in genere, ma per il fatto che il film Corpo non sarà visibile al pubblico ancora per molti mesi: parteciperà ai festival del cinema, che richiedono l’inedito, e sarà proiettato all’università del Connecticut nell’ambito delle lezioni di Monica Martinelli, insegnante di Italiano, Letteratura e Storia del Cinema.

Anche il romanzo è autoprodotto e indipendente, si trova solo su Amazon che non apprezzo per lo sfruttamento nei confronti dei lavoratori ma non avevo alternativa: nessuna casa editrice ha scommesso su Corpo malgrado il successo del mio saggio d’esordio http://www.chiarelettere.it/libro/principio-attivo/i-panni-sporchi-della-sinistra-9788861904279.php

Pazienza, so che facendo questa ammissione perderò l’interesse di chi sceglie in base all’importanza dell’editore mentre alcuni lettori affezionati ai libri d’inchiesta (grazie sempre a Chiarelettere, che sfortunatamente non si occupa di narrativa) non seguiranno questo cambiamento di genere. Non c’è problema, Corpo, sia il film che il romanzo, sono una nuova avventura!

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CORPO

I.

Camminava in un meriggio di primavera nel mezzo di una selva oscura, con lo sguardo rivolto all’insù. I raggi solari giocavano a nascondino tra le crine di querce millenarie creando un nobile intarsio sul cielo, a tratti le rischiaravano i capelli color nocciola. Il suo anello a forma di girasole splendeva sul dito mignolo, la luminosità pungente l’induceva a sbattere gli occhi azzurri e a formare sulla bocca un sorriso singolare, sapido e sfrontato.
Camminava sul sentiero parallelo all’unica strada asfaltata che taglia la macchia verde e intanto s’inebriava, la brezza spirava dal golfo mescolandosi agli odori degli aghi di pino e delle resine. Avanzava sicura, sostenuta da piedi piatti stretti nelle scarpe nere da ginnastica e da gambe lunghe e toniche come fusti di piante. Indugiò solamente su un albero che si distingueva per robustezza e altitudine: radicato sul terreno ricco di minerali, profondo e ben drenato, si adattava al gelo e all’estate più calda, alle tempeste e alla siccità. I rami in fiore erano puntati verso l’empireo, eternamente gioiosi. La sua fervida fantasia faceva sì che le mani di quel portento più antico della Magna Grecia pian piano iniziassero a muoversi al modo di Pinocchio ma, a differenza del burattino di Geppetto, esse beneficiassero della facoltà di animali magici: uccelli policromi con le branchie. E così le dita lignee levitavano leggiadre, si libravano con le traiettorie ardite di un albatros, roteavano sul crinale dipingendo orbite ellittiche, fendevano l’atmosfera rarefatta della cima sfiorando le divine nubi, e poi planavano giù fra le cascate e i ruscelli accelerando come le rapide del fiume. Nel mare si divertivano a rasentare l’acqua come il vento che l’increspa prima della burrasca e, alfine, svanivano nel blu infinito senza lasciare traccia.
Così si sentiva Monika, una ragazza di ventuno anni cresciuta in fretta, sgusciata da un passato che le aveva impedito di spiccare il volo. Nella nuova vita, spinta da una sconfinata sete di conoscenza, si era elevata come un albero animato, durante il rigoglioso sviluppo aveva potato i rami secchi dell’ordinario per assaporare i bagliori cangianti del particolare, anche il più apparentemente insignificante. Da allora camminava pure su fondamenta ispide e scivolose. Il piglio determinato e la postura, ritta e imperiosa, indicavano un’ambizione visionaria, tuttavia immune da superbia e cupidigia, dacché era stata capace di rimuovere i sentimenti negativi per custodire gelosamente il côté più esclusivo: la purezza del suo universo interiore.

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Camminava anche quel giorno al ritmo dell’auricolare mentre calpestava per diletto le foglie sul sentiero, quasi a segnare un punto in un moderno videogame importato dall’America. Lo zaino bordeaux, un ricordo di Parigi, le ciondolava sul dorso come se una delicata percussione carezzasse la melodia di Le chic et le charme di Paolo Conte. Monika sceglieva le musiche non in base all’umore ma allo stato d’animo verso il quale sentiva di tendere, erano il preludio e così amava gustare ogni nota, ogni strofa, ogni silenzio. Ugualmente si acconciava la mattina. Se la salopette di jeans, che lasciava scoperte le bianche spalle e metà coscia era funzionale alla scarpinata, la lunghissima e rigorosa treccia sembrava un simbolo epico. Non un archetipo matriarcale o qualche teoria che gli intellettuali potessero confinare in un bolso dibattito sul significato politico e psicologico del look, neppure un’esaltazione estetica delle forme giunoniche sulle quali si accomodava senza malizia. Viceversa, quel serpente che aveva per capelli suggeriva un rapporto di simbiosi con la natura. Ad esempio, nel corso della passeggiata la sua coda si allontanò dal corpo per ficcarsi in un cespuglio: Monika aveva lanciato un bastone nella boscaglia e la treccia, per effetto del movimento, si era avvinta con vigore ad un rametto spinoso. Non c’era verso di staccarla, sicché la ragazza si fece largo con premura nell’arbusto, abitato da tanti piccoli esseri che svolazzavano fra le foglioline ovali. Avvertì un profumo intenso, seguendone la scia scoprì una pianta di rosa nascosta in mezzo ai rovi. V’era un unico bocciolo, in procinto di schiudersi. Invisibile agli animali, quel fiore si presentava di un rosa sì vivo da commuovere.
<<Amazement>> sospirò ammaliata nella lingua che per prima aveva imparato in Unione sovietica, studiando clandestinamente testi occidentali. Le capitava non di rado che qualcuno o qualcosa, d’incanto, la riportasse all’essenza. Il momento era sublime quanto sfuggente, benché non fosse in grado di decodificarne il senso, l’accoglieva con letizia ascendente. Proprio come un’artista con la sua opera, arrivava a immedesimarsi nell’oggetto, in un attimo la cui relatività temporale soggiace alle leggi della creatività. Ora Monika sarebbe stata quella rosa per tutte le volte che avrebbe desiderato in futuro, un turgido bocciolo che è sempre sul punto di svelarsi, adornato di minuscole gocce di rugiada, vezzeggiato da buffe coccinelle, baciato da frizzanti api, corazzato di spine necessarie, forse utili a tener distanti gli spiriti maligni, forse letali per cuori vulnerabili. Monika chiuse gli occhi e si tuffò con la totalità del viso nella fragranza, abbandonandosi fra i morbidi petali con estrema delicatezza, come calzasse una seconda pelle di raso rosa. L’armonia indicibile le stava procurando piacere cerebrale, purtroppo venne infranta dal rombo di una vettura in lontananza. La ragazza si ridestò: <<E’ l’occasione propizia per tornare all’ostello prima del crepuscolo>>. Lesta, si riversò sul ciglio della strada ed esibì il pollice. L’auto, una jeep nera di fabbricazione giapponese, accostò.
Il conducente era un signore bruno con la capigliatura folta e una barba bislunga che lo faceva somigliare a Rasputin, il mistico consigliere degli zar Romanov, e mal si conciliava con la giacca e la cravatta. A suggellare lo stile pittoresco contribuivano un paio di mocassini marron, un vistoso orologio e una grossa catena al collo di oro finto. Ad ogni buon conto quell’uomo aveva un’aria familiare, le ricordava uno zio delle steppe siberiane, una persona rude e goffa che si spingeva in città soltanto a Natale portando un sacco di doni e di cibi genuini. Molto religioso senza dubbio, ma digiuno dei riti ortodossi che ammorbavano i fanciulli delle famiglie agiate come la sua, con la dacia, il vasto giardino e accanto una chiesa sfarzosa, il luogo più congruo per l’anima esigente che pasce con la parola del pastore. No, quell’uomo era intriso di una spiritualità anarchica, incolto e balordo finché si vuole ma ricco di generosità contadina, prodigo di consigli pratici per i più giovani. <<Grazie>> esordì briosa Monika sedendosi. Lo <<zio>> aggrottò le folte sopracciglia, i suoi occhi erano privi della bonomia agreste e non cessavano di squadrarla da capo a piedi. Dell’idea che si era fatta permaneva in lui solo un primordiale istinto di lotta per la sussistenza, che trasfigurava la giovane in mercanzia o, piuttosto, in mucca nella stalla. Quando Monika fu costretta ad avanzare leggermente per sistemare lo zaino sul sedile posteriore, l’uomo pose viscidamente lo sguardo sul primo bottone slacciato del vestito. <<Dove scei diretta?>> chiese con un marcato accento bolognese che cancellò definitivamente l’immagine del vecchio zio. Monika sottolineava il distacco mantenendo le braccia conserte, rispose senza guardarlo e, in virtù di un lampo di diffidenza, senza riferirsi al giaciglio notturno: <<All’università>>.
<<Che brava. E cosa fate a quest’ora, un party?… Io sono Giacomo, ma tu puoi chiamarmi Jack>>.

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Malgrado il nome comune e la perfetta pronuncia di Monika, Giacomo sfoggiò una certa perspicacia: <<Allora Monny, che si dice al Nord? Perché non sembri italiana>>.
<<No>>.
L’uomo non si curava delle repliche monosillabiche, era convinto di poter aggirare con facilità le altrui resistenze e tradiva pure una venatura razzista: <<Comunque vieni dall’Est Europa, io non sbaglio mai su queste cose… E dai, durante il viaggio dovremo fare due chiacchiere. Sai, io sono molto conosciuto in paese… Sei appena arrivata?>>. Neanche il cenno di diniego lo persuase a moderare quella specie di interrogatorio: <<E che ci fai qui?>>. Monika era stufa di venire esaminata e oggettificata da un tale che non aveva alcun interesse nei confronti della sua persona.
Le riaffiorarono i tornei di scacchi in Unione sovietica. Adorava i giochi di strategia, anche se le sue grandi passioni erano il nuoto, l’equitazione e il tiro con l’arco, ma alcuni scacchisti erano insopportabili. Avrebbe preferito interagire con individui, se non proprio interessanti, almeno garbati. Quando andava bene si annoiava a morte, nella peggiore delle situazioni le sedevano dirimpetto anziani bavosi o volgari rampolli, cui avrebbe voluto stampare in fronte un alfiere in alabastro. In tal caso moltiplicava l’impegno per conquistare presto la vittoria, conscia di doversi sciroppare lagnose scempiaggini maschiliste, una serie di giustificazioni patetiche che l’uomo forniva dopo essere stato sconfitto da una ragazza, tediose quanto i comizi di partito e le parate militari. Stavolta però Monny non poteva darsela a gambe. Era imprigionata nell’auto di quello <<zio>> per un viaggio che non sarebbe terminato prima di un’ora. Decise dunque di trasmettere l’irritazione scandendo: <<Stu-dio all’uni-ver-si-tà>>.
Arrocco inutile. <<Cosa di bello?>>.
<<Lingue e Letterature straniere>>.
Cominciava ad allarmarsi. Giacomo infatti alternava espressioni banali da corteggiatore petulante a occhiate oblique tipiche di un delinquente. Aveva come l’impressione che nella tasca della giacca color beige, da un momento all’altro, potesse estrarre un coltello. Mentre lei si annebbiava in quei grigi pensieri, l’uomo, grattandosi la barba, domandò: <<Chi ti mantiene?>>.
<<Nessuno>> rispose con raccapriccio.
<<Eh, ne ho viste tante di giovani come te>> continuò lui, nient’affatto scoraggiato. Anzi pareva stimolato, come se non stesse aspettando che una ragazza bella e indipendente per sfogare le proprie frustrazioni. O peggio.
<<C’è chi vuole diventare interprete, chi sogna il cinema… Ma dove finiscono? Le vedi in fila dal regista per un provino e per un invito a cena, disposte a tutto… E poi te le ritrovi a fare le sguattere>>.
Sì, il capro espiatorio femminile non rappresentava una gran novità. Se non sono mogli e madri, alle donne si addicono i ruoli di meretrice e di addetta alle pulizie. Monika batteva il piede per il nervoso: <<Chi non ha bisogno di qualcosa?>>.
<<Io mi sono organizzato bene, e non dipendo da nessuno. Gli affari sono il mio pane, ne fiuto uno anche a mille miglia>>.
<<E ne trova di tarfufi?>>.
Sorpreso dall’ironia della passeggera, Giacomo si fece più scuro. <<Sei simpatica, ma il mondo non va avanti a battute>>.
<<Solo col denaro giusto?>>.
<<Se hai problemi economici non preoccuparti. A tutto c’è una soluzione… Qualora avessi bisogno di assistenza… >> seguitò mettendo la mano all’interno della giacca. Non ne uscì un’arma ma un biglietto da visita di agente finanziario.

Piovani, da bomber a mister del Sassuolo femminile: “Le atlete ti danno più soddisfazioni”

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L’aurora del 2020 per il calcio femminile, in Emilia-Romagna, è rappresentata dai gol e dallo spettacolo che baciano il cuore di Sassuolo. O di Sasol, espressione dialettale che comprime il toponimo del terzo comune della provincia di Modena per numero di abitanti. Questa città, oggi divisa fra la gloriosa ceramica e le scintille del calcio, pare l’anello di congiunzione fra arte manuale e fantasia, passato e futuro, così come il nome conserva una doppia origine: i termini latini saxum e solum rimandano al territorio roccioso, su cui probabilmente sorgevano i primi villaggi, e al petrolio, molto presente nel sottosuolo. Sia come sia, la ricchezza calcistica di Sassuolo attualmente sgorga da un altro binomio, quello che unisce, sotto il marchio dell’industria chimica Mapei, la squadra di Roberto De Zerbi e la formazione femminile.
Le ragazze allenate da Gianpiero Piovani giocano nello stadio Enzo Ricci, costruito nel 1929 in piazza Risorgimento, in pieno centro storico. Non tragga in inganno l’età dell’impianto, intitolato al dottor Ricci, schermidore reggiano e medico sociale del Sassuolo. Lo stadio, più volte rimodernato dal Comune che ne è proprietario, accoglie fino a quattromila spettatori. La squadra maschile lo ha utilizzato prima di trasferirsi nell’avveniristico Mapei stadium di Reggio Emilia e, per gli allenamenti, fino alla sfida di saluto nel maggio 2019, quando si sono affrontate due undici misti, composti da calciatrici e calciatori del Sassuolo. L’ amichevole del Sasol si è conclusa in parità nei tempi regolamentari, con reti di Michela Cambiaghi per i verdi ed Elisabetta Oliviero per gli arancioni, poi vincenti ai calci di rigore. Lo stadium era stato teatro di un importante evento sportivo tre anni prima: la finale di Women’s Champions League vinta dall’Olympique Lione contro il Wolfsburg.

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La prima parte del campionato per il Sassuolo femminile è positiva, si va confermando il quinto posto della prima stagione. L’esordio casalingo del 2020 contro l’Hellas Verona si conclude 4-1 in forza di un gioco frizzante ed efficace, con tripletta di Claudia Ferrato e autogol provocato da un cross forte e teso di Martina Lenzini. Anche la portiere belga Diede Lemey risulta decisiva per alcuni interventi nei momenti di forcing delle scaligere. Passeggiando al termine dell’incontro, Piovani non si sofferma sulla mossa vincente di inserire Ferrato dopo neanche mezz’ora di gioco: “Prima della gara mi premeva di dire che le giocatrici più importanti sono quelle che vengono dalla panchina, già la scorsa partita Claudia era entrata confezionando l’assist del gol e procurando un rigore. Le ragazze sono tutte importanti: Diede è stata molto brava ma anche Nicole Lauria (la numero 12, classe ’99, nda) lavora bene, abbiamo un ottimo preparatore, Raffaele Nuzzo, a me piace che i portieri sappiano giocare coi piedi e loro si applicano molto bene, con voglia e determinazione”. Obbiettivo la permanenza nella massima serie, con la consapevolezza di poter confermare il quinto posto della prima stagione e di continuare a crescere. Il mister sottolinea: “Sempre con la massima umiltà”. Assieme alla caparbietà e alla visione di gioco, è uno dei tratti distintivi dell’ex bomber del Piacenza maschile di Gigi Cagni.
Ci ha sempre creduto, Gianpiero Piovani, fin da bambino, quando sgambettava nel campetto dell’oratorio di Orzinuovi, antica cittadina della provincia bresciana. “Sin da allora mi muoveva la passione: mamma Dina veniva a chiamarmi alle otto di sera in oratorio dicendomi che era pronto in tavola. Io dicevo “arrivo fra cinque minuti, poi continuavo a giocare a calcio fino alle dieci. Quando tornavo a casa, trovavo la tavola vuota e andavo a letto senza mangiare”. Gianpiero viene notato dagli emissari del Brescia, che lo inseriscono negli under. La prima partita in serie A reca la data del 14 settembre 1986. Al centro del rettangolo verde, a stringergli la mano, è il numero dieci del Napoli: Diego Armando Maradona. Il ricordo di Piovani è vivo più che mai: “Esordire a 17 anni in serie A con la maglia della mia città, Brescia, e contro Maradona che è stato uno dei migliori giocatori al mondo, è un’emozione indescrivibile. Credo che ci sia poco da dire. Ancora oggi mi viene la pelle d’oca”.
Nei quattro anni seguenti viene mandato a farsi le ossa, con la formula del prestito, nel Parma in serie B e nel Cagliari, con cui ottiene la promozione dalla C1 alla seconda serie e una Coppa Italia di C. Nel 1990 torna in Emilia Romagna nella città più lombarda: Piacenza, voluto da Luigi Cagni, allenatore bresciano che lo aveva tenuto d’occhio anche nelle stagioni dei prestiti. Il trainer lascia sei anni dopo, mentre Piovani dispiega quell’avventura lungo undici primavere costellate da gioie e imprese sportive: la promozione in A e le quattro salvezze consecutive, e ancora, dopo due retrocessioni, altrettante promozioni, con Piovani stabile punto di riferimento. A titolo statistico il Gianpiero nazionale, ché l’azzurro avrebbe meritato per quanto dimostrato sul campo, fa registrare il maggior numero di presenze nella storia del Piacenza, 341, e il podio dei goleador, come terzo miglior marcatore di sempre nel club: 57 reti, delle quali 15 realizzate nella stagione 1994-1995 in appoggio a Filippo Inzaghi. Ma la sua crucialità negli equilibri di gioco andava oltre: Piovani non era un attaccante puro, partiva defilato sulla destra e svariava su tutto il fronte, dialogava coi compagni alla ricerca di soluzioni geometriche, incisive e spettacolari.

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Il passare degli anni e dei successi non ne hanno scalfito la cifra del professionista serio e disponibile. Quando l’allenatore del Piacenza Walter Novellino lo ha messo da parte, Piovani è ripartito senza batter ciglio dalla serie C con il Livorno, contribuendo a riportarlo in B dopo un trentennio. Poi Lucchese e Lumezzane, le esperienze in serie D nel Chiari, nell’Ivrea e nell’associazione calcio Rodengo Saiano, vivendo con queste ultime due squadre la promozione in serie C1. Appende le scarpette al chiodo nel 2001, sempre in D, con la Nuova Verolese. Dal mondo dilettantistico comincia l’esperienza in panchina, che prosegue con tenacia anche dopo aver acquisito a Coverciano, dieci anni dopo, il titolo di tecnico di prima categoria Uefa pro, ossia il diritto ad allenare nella massima serie. Piovani si accorge che il suo posto è nei vivai, ama insegnare calcio e crescere, sognare assieme ai ragazzi, forse perché lui medesimo non ha perduto la purezza del fanciullo.
Dopo tre anni da allenatore della Feralpisalò, con le categorie allievi nazionali e berretti, nell’estate 2017 Piovani riceve una proposta dal Brescia femminile, impegnato a sostituire Milena Bertolini. Le leonesse sono reduci da un secondo posto dietro la Fiorentina e da una finale di Coppa Italia persa sempre con le viola. La società ridisegna la squadra per via della partenza delle nazionali Sara Gama, Martina Rosucci, Valentina Cernoia e Barbara Bonansea. Piovani spiega come avvenne il contatto con il calcio femminile: “Giocando la domenica con i ragazzi, il sabato mi capitava spesso di andare a vedere le partite delle ragazze del Brescia. Ero molto incuriosito da questo movimento che in quel periodo era ancora poco seguito. Mi notarono il direttore sportivo Cristian Peri e il presidente Cesari ad una partita, per l’esattezza Brescia-Fiorentina. Terminò 1-2 e diede lo scudetto alle Viola con due-tre giornate di anticipo. Organizzarono un incontro con me e da lì parti tutto… Accettai subito con grande entusiasmo pur sapendo che l’anno dopo più della metà della squadra sarebbe andata alla Juventus”.

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Il Brescia trattiene ancora per una stagione la bomber della nazionale Cristiana Girelli, i portieri Camelia Ceasar e Chiara Marchitelli, nonché Daniela Sabatino, attaccante che aiuta Piovani a comprendere in profondità il calcio femminile. Inoltre si aggiungono Manuela Giugliano e Brooke Hendrix, oggi centrocampista del Washington Spirit. Il gruppo, presto plasmato secondo le idee del nuovo coach, supera una ad una le avversarie vincendo la Supercoppa e salendo in vetta al campionato. La sconfitta contro la Juve nello spareggio di Novara, ai calci di rigore, nega loro lo scudetto. E’ soltanto la prima amarezza per le leonesse. La società non riesce a trovare le risorse sufficienti per iscriversi al campionato e deve ripartire dalla categoria Eccellenza. Quindi sfuma anche la partecipazione alla Women’s Champions League ottenuta sul campo. Per Piovani, che riceve la panchina d’oro di serie A, la delusione è grande, ma l’idea di mollare non lo sfiora. “Assolutamente non ho mai pensato di abbandonare il femminile. Avevo voglia di ripartire e la fortuna volle che il Sassuolo grazie a Terzi e all’amministratore delegato Carnevali mi fecero questa proposta… Anche qui, vedendo la serietà delle persone e del progetto che avevano in mente, non ci ho pensato un attimo e ho accettato”.
Il Sassuolo di Giorgio Squinzi, patron della Mapei che nel maschile sta ottenendo ottimi risultati, confida nel mister bresciano per raggiungere traguardi anche con la squadra femminile. Del resto Squinzi e la moglie Adriana Spazzoli, recentemente scomparsi, sono stati innovatori anche nello sport. Ne è testimone autorevole la presidente del Sassuolo Betty Vignotto, miglior marcatrice della storia della nazionale italiana con 107 gol, e ancora 467 reti in campionato, sei scudetti e quattro Coppe Italia. Ebbene, in mezzo secolo di calcio, di cui venti giocati, la campionessa originaria di San Donà di Piave ha vissuto, accanto a gratificazioni ed esperienze bellissime, anche molte difficoltà economiche e organizzative. Vignotto vinse tre titoli a Reggio Emilia, dove era giunta nel 1988, e otto anni dopo assunse la carica di presidente in sostituzione dell’industriale Renzo Zambelli. La dipartita di Zambelli ridusse in modo drastico gli investimenti e la Reggiana ripiombò nella crisi. Le granata rimasero aggrappate alla serie A per undici anni di filato e vinsero pure una Coppa Italia nel 2010, ma la stagione successiva non riuscirono a iscriversi al campionato, ripartendo dalla C. “Eppure ogni anno che passa aumentano i numeri delle iscrizioni” ricordava all’epoca Vignotto, amareggiata per le sue giovani: “‘E’ davvero triste veder crescere il movimento alla base ma non poter garantire alle ragazze più brave di vivere con i proventi di questo sport, facendo le professioniste. Altrimenti è difficile fare risultati quando agli allenamenti si sommano anche gli impegni di lavoro e/o di studio”.
Ciò finché Squinzi, seguendo il virtuoso esempio della Fiorentina, non decide di puntare sul calcio femminile creando la prima squadra di calciatrici nella capitale della piastrella. Nel 2015 il gruppo è composto da venti bambine under 12 che partecipano con entusiasmo al torneo provinciale dei Pulcini, affrontando i maschietti di pari categoria. Nel giro di un anno le due realtà della pianura padana convolano a giuste nozze: la Reggiana viene affiliata al club dell’industriale. Vignotto, come tutto il movimento del calcio femminile, è grata a Squinzi, poiché subentrando, il Sassuolo, fornisce un modello di integrazione, una condivisione di conoscenze e di risorse, una solida base da cui spiccare il volo in termini di logistica e di promozione. La società emiliana anzitutto sarà in grado di realizzare in località Cà Marta un centro sportivo di 45mila mq, comprensivo di tre edifici e sei campi, uno dei quali con tribuna coperta, dove si allenano prima squadra e settore giovanile, uomini e donne. Inoltre firmerà, al pari di Milan e Chievo, per un progetto in cui si impegnano ad insegnare il metodo futsal all’interno degli allenamenti di calcio a 11, basato sulla alta qualità tecnica che ha prodotto in Sudamerica. La commozione di Betty nel giorno della presentazione nasce dal sollievo economico ma anche dai valori, dalla “completezza di intenti con una realtà sportiva maschile che afferma la dignità delle ragazze che giocano a calcio e dà a loro opportunità di crescita sportiva e non solo”.

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(da sinistra De Zerbi, Piovani, Adriana Spazzoli)

Quando Piovani si presenta alle neroverdi, che si sono appena salvate ai play-out con l’allenatrice uscente Federica D’Astolfo, trova uno spogliatoio rinnovato per effetto di diverse cessioni e di innesti qualitativi come Martina Lenzini, cursore di fascia capace di difendere e di proporsi in fase offensiva, in virtù della buona velocità e della precisione nei cross. E Claudia Ferrato, miglior realizzatrice a Padova con trenta reti in due stagioni, nazionale under 23, punta dinamica che lavora molto per la squadra ma riesce a mantenere il guizzo nell’area piccola.
Il mister cerca subito l’amalgama durante il ritiro, dove chiede e ottiene grande attenzione. In un campionato più competitivo per l’avvento di corazzate come Milan e Roma femminile, il Sassuolo esprime un buon gioco e si piazza al quinto posto. Sabatino segna 12 dei 27 gol complessivi. Il commento finale del Gianpiero nazionale è un manifesto per il movimento del calcio femminile: “Le ragazze sono sempre sul pezzo, non ho mai finito un allenamento pensando che non mi fosse piaciuto. Non si sono mai risparmiate. C’è poco da fare: ti trasmettono qualcosa in più rispetto agli uomini”. In estate la società, su indicazioni di Piovani, rafforza l’ossatura della squadra nei vari reparti: oltre ai due portieri, arrivano difensori come Grace Cutler dal West Virginia university ed Erika Santoro dal Pink Bari, in mezzo al campo le sorelle Kamila e Michaela Dubcova dallo Slavia Praga, ma anche Emma Errico dal Tavagnacco, mentre il reparto offensivo si dota del capitano Daniela Sabatino, della centravanti della Roma Luisa Pugnali e delle giovani Camilla Labate e Danila Zazzera, in prestito dalla Fiorentina. Pronti, via: allenamenti ogni giorno, martedì e giovedì seduta doppia. Il tecnico assembla rapidamente il nuovo gruppo, le calciatrici più esperte e le giovanissime. Come Maria Luisa Filangeri, siciliana classe 2000, difensore delle viola e della nazionale under 19. Piovani, che l’aveva osservata attentamente l’anno precedente, impiega Filangeri come centrale nella difesa a tre. “E’ brava e duttile, farà bene”.
Il tecnico dunque trasmette alle atlete del Sasol le sue qualità di calciatore e uomo, dentro e fuori dal campo, dove sono fondamentali la capacità di ascolto e di dialogo, l’impegno e la valorizzazione di tutti i componenti. “Credo che il gruppo al giorno d’oggi sia fondamentale per ottenere risultati. Porto sempre esempi alle ragazze di quando giocavo ai tempi del Piacenza dove una squadra tutta italiana riusciva a salvarsi e giocarsela con le big perché si formava un gruppo che prima di essere squadra era famiglia e questo ci ha portato a toglierci grandi soddisfazioni…”.

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Piovani, in che modo il calcio femminile italiano può raggiungere i livelli che merita, ovvero quelli di nazionali come Stati Uniti, Olanda, Francia e Regno Unito?

Credo che per arrivare ai livelli delle top nazionali si debba lavorare ancora molto in ottica di forza e tecnica, mentre a livello tattico siamo avanti rispetto a loro e il mondiale appena giocato ha dimostrato questo…

Betty Vignotto sostiene che la crescita del femminile passa attraverso i club maschili.

Assolutamente d’accordo e noi ne abbiamo l’esempio in casa. Il Sassuolo calcio è una famiglia creata e voluta fortemente dal dottor Squinzi e la dottoressa Spazzoli e noi siamo fieri e orgogliosi di portare in giro per l’Italia questo stemma e questa bandiera… La speranza è che altri club seguano per permettere a più ragazze di entrare in questo magnifico mondo.

Si unisce alla lotta per il professionismo delle calciatrici italiane?

Sicuramente le atlete, per la dedicazione e la voglia di migliorarsi che mettono durante gli allenamenti, meriterebbero di essere retribuite nel modo giusto e soprattutto tutelate sotto ogni punto di vista.

Il calcio resta un ambiente iper maschilista. Si sente spesso in tv o alla radio “va beh, ora passiamo a parlare di calcio vero”. Cosa risponde a questi uomini?

Si sbagliano perché la volontà e la passione che ci mettono le ragazze va oltre… I riscontri che ho avuto sono davvero straordinari.

Le idole della nazionale creano i sogni nelle ragazze e una nuova consuetudine negli occhi e nella mente di addetti ai lavori, spettatori e genitori. In concreto è migliorata la situazione per le bambine e le adolescenti che si affacciano con interesse al calcio?

Oggi le bambine o ragazze che si affacciano al mondo del calcio sono in forte crescita. Si parla addirittura del 30% in più rispetto al passato ma si spera che col passare del tempo si arrivi ad una percentuale molto più alta.

Ha vissuto il calcio maschile e quello femminile, che differenze riscontra? Cominciamo dai campi: alcuni osservatori sostengono che siano troppo grandi.

Per quanto riguarda le misure del campo lascerei tutto così com’è anche perché le ragazze hanno capacità aerobiche importanti e velocità di esecuzione. È normale che a livello di forza non siano come gli uomini ma…

Creatività?

Le vedo fare gesti tecnici di grandissima qualità.

Applicazione degli schemi.

In allenamento c’è molta abnegazione. Il lavoro è improntato più sulla fase offensiva perché la percentuale di gol nel femminile è molto bassa e quindi lavoriamo per alzare la media…

La differenza quindi?

Le ragazze ti danno più soddisfazione degli uomini per il modo di approcciarsi all’allenamento e alle partite. Anche in una squadra molto giovane come la nostra, che dovrà lavorare tanto ma in futuro potrà ottenere importanti gratificazioni.

 

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Pignagnoli, portiere che gioca coi piedi e con la testa

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Se la vita fosse un campo da calcio, chi mantiene un solido radicamento ai principi e al tempo stesso intraprende molte avventure rappresenta un portiere moderno, che bada al sodo tra i pali e sa giocare coi piedi. Così è effettivamente Alice Pignagnoli, che di lavoro indossa il numero uno: per tre lustri ha girato la penisola come una trottola, difendendo le porte di 13 squadre senza piegarsi né ai rimproveri familiari nè allo sfruttamento lavorativo. Nel 2020 diventerà madre, pronta a re-indossare i guantoni.
Pignagnoli, classe 1988, tira i primi calci nel cortile di casa con lo zio Aldo, un ex giocatore che ha dovuto interrompere a causa di un brutto incidente in motorino. Aldo regala alla nipotina le prime scarpette e lei non riesce a star ferma: all’aperto, o chiusa in casa, cerca sempre il pallone. Da bambina, come Alice nel Paese delle Meraviglie, piomba al centro della Terra, il suo mondo interiore è ricco di quella magia intellegibile solo ai veri amanti del calcio. Sembra di essere nella partita a croquet voluta dalla Regina di Cuori. Gli alberi come i pali, i cespugli come segnalinee, il profumo dell’erba, i raggi solari che si specchiano negli occhi di bambine e bambini, le corse animalesche accanto a cani e gatti, i capelli che si sciolgono, i respiri corti e le urla smisurate, i tuffi senz’acqua dei portieri per afferrare il pallone: liscio o fangoso, sfuggente o pronto a ricevere un caldo abbraccio, coerente come un sasso o stregato, ammaliato dagli effetti più strani.

Alla prima occasione Alice si misura coi maschietti vicini di casa e i compagni della scuola che frequenta a Reggio Emilia. Calcisticamente nasce centrocampista, ha gambe, fiato e visione di gioco. Se ne accorge un allenatore della zona, che la porta nell’atletico Santa Croce, una squadra maschile di quartiere dove comprende la passione, la predisposizione per il calcio. I genitori però costringono la figlia a giocare a pallavolo dai 10 a 14 anni: “Allora c’era un rapporto molto conflittuale. Da bambina molto vivace ma altrettanto brava a scuola, non capivo come mamma e papà potessero ostacolarmi in una cosa tanto innocua come praticare uno sport. Si nascondevano dietro i vari “è uno sport da maschi” e “prendi freddo a giocare all’aperto”, poi sono riuscita a fargli confessare la loro vera paura: in anni in cui il calcio femminile era alla stregua di un ghetto, temevano che il far parte di un gruppo fortemente caratterizzato dalle dinamiche omosessuali, avrebbe potuto orientare i miei gusti sessuali”. Pignagnoli non demorde, sceglie di iscriversi al liceo scientifico Aldo Moro dopo aver visto appesa una foto della Reggiana femminile, a quei tempi all’apice del ciclo vincente. “Ho iniziato entrando a far parte della squadra di istituito, di cui facevano parte tante componenti del settore giovanile della Reggiana, tra cui alcune nazionali, e con cui poi ho vinto un titolo italiano, e raggiunto un terzo posto l’anno successivo. Successivamente la responsabile del settore giovanile mi fece fare un provino per la primavera granata”. La sistemano tra i pali per motivi molto pragmatici, a seguito dell’infortunio dell’unico portiere arruolato in primavera. E lei si innamora del ruolo, per il quale sono necessari talento, coraggio e personalità: “Sì, è così, il portiere si trova da solo di fronte a tutti. Il mio mito è sempre stato Buffon per la personalità, il carisma e per come ha rivoluzionato il ruolo del portiere: meno attenzione ossessiva alla tecnica, e più ai risultati e al ruolo di guida per la difesa e la squadra tutta”.

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Alice Pignagnoli viene aggregata a sedici anni in prima squadra in serie A nella Reggiana che poi raggiunge il quarto posto e il pass per la Italy Uefa womens cup. Due anni dopo disputa 21 gare da titolare su 22 in B con la polisportiva Galileo Giovolley, che si classifica terza, a un soffio dalla promozione in A2. Poi Varese e Milan, dove approda in concomitanza col primo anno di università. A vent’anni esordisce in serie A nell’arena civica Gianni Brera ma non prova un’emozione particolare: “Ero già molto determinata e ambiziosa, e l’ho visto solo come un primo gradino per il raggiungimento di obiettivi più “alti”. La cornice era pazzesca ma il campo aveva un fondo terrificante: era una struttura ormai da tempo destinata a concerti e spettacoli”. Ciò che conta davvero, però, non afferisce agli stadi: “Gli obiettivi primari per il nostro movimento sono le tutele e le garanzie minime che rendano appetibile questo sport per famiglie e ragazzine e almeno un “semi-professionismo” che consenta alle atlete di preferire questa attività a un lavoro retribuito mediamente”. Mentre gioca a Como Alice consegue la laurea a pieni voti in Scienze della Comunicazione presso lo Iulm di Milano, con la seguente tesi: Verso un’etica della differenza: la promozione della figura femminile tra cultura di massa e società dell’informazione.
Lavorerà nel giornalismo sportivo, accumulando collaborazioni precarie in tv e quotidiani locali, e per sei anni in una web agency in cui arriverà a dirigere il reparto produzione composto da 14 persone, un ruolo che mal si concilia con lo sport ad alto livello. Nella parentesi al Napoli, finalmente, può fare la “solo” la calciatrice: “Un’esperienza unica, potermi permettere, anche economicamente, di fare una scelta ancora una volta contraria a quello che avrebbero voluto i miei genitori, e di essere totalmente autonoma. Conoscere e integrare modi di vivere e di pensare diversi dal mio”. Pignagnoli accetta la proposta della fortissima Torres, dove nel 2011/12 vince Supercoppa e scudetto. Tutto però svanisce a causa della disparità di genere: un uomo in serie C2 guadagna abbastanza per mantenere una famiglia mentre lo stipendio di una donna nella migliore squadra della Serie A è più basso di quello di un operaio: “Non era possibile far venire il mio compagno a Sassari senza un lavoro. Così sono andata al Riviera di Romagna. Fu una scelta obbligata, la stessa per cui dovetti rifiutare Fiorentina e lo scudettato Verona in serie A un paio di anni dopo, per ritrovarmi a giocare a Oristano in serie B (una serie B a 4 gironi, molto diversa da quella attuale, nda), perché il lavoro che avevo trovato non mi permetteva di allenarmi al pomeriggio come già facevano molti club di serie A”. Il wonderland del rettangolo verde appare sempre più lontano, perché Alice deve fare i conti con l’ingiustizia: “Questo passaggio è stato uno dei più traumatici della carriera, una realtà totalmente diversa da quelle che avevo vissuto e per cui avevo fatto grandi sacrifici fino a quel momento. Purtroppo la prospettiva di una casa, una famiglia e un matrimonio, mi imponevano di lavorare e non si poteva fare diversamente. E’ stato in quegli anni in cui mi sono letteralmente “inventata” l’ennesima risorsa: con la scusa di non poter andare ad Oristano ogni giorno per gli allenamenti, ho chiesto alla società di eccellenza in cui giocava il mio fidanzato Luca Lionetti di essere ospitata per gli allenamenti settimanali. Inizialmente è stato molto complesso, poi mi ha permesso di continuare ad accrescere il mio bagaglio tecnico e personale, anche con gesti che nel femminile, quantomeno allora, non venivano curati particolarmente, come le palle alte”.

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Alice Pignagnoli mette in pratica i nuovi insegnamenti nel Valpolicella – Chievo Verona, nel 2016 torna a Cervia nel Riviera e convola a nozze con Lionetti. Una curiosità: due anni dopo partecipa alla trasmissione Rai I Soliti Ignoti. La concorrente che avrebbe dovuto indovinare la sua professione, fra le opzioni proposte, scarta praticamente subito quella del portiere di calcio. Gli sguardi stupefatti del pubblico la dicono lunga su quanto la società italiana debba ancora progredire. Pignagnoli intanto cambia squadra di anno in anno: veste le maglie di Imolese, Mantova e Genoa Woman, infine Cesena. “Ho solo ricordi di inclusione, dopo primissimi momenti di diffidenza i ragazzi con cui mi allenavo quotidianamente mi hanno fatto sentire una di loro, mi hanno rispettata come donna e come atleta e hanno riconosciuto il mio spirito di sacrificio. Forse l’unico ricordo negativo è quello dello scorso anno, quando dopo tanti tira e molla, a mio marito è stata comunicata una mancata conferma, solo ad agosto: poi abbiamo saputo che la mia presenza era diventata ingombrante e mister e preparatore dei portieri hanno preferito fare scelte diverse. E’ stato un momento molto duro, in quanto per l’ennesima volta ho sentito che le mie scelte pesavano anche sulla vita di mio marito, ma lui non si è perso d’animo, ha trovato una nuova squadra, la Fidentina, in cui sono stata subito accettata da tutti e, addirittura, vista dal preparatore dei portieri Marco Palmucci come un’occasione di crescita per i suoi ragazzi”. Alice svolge tutta la preparazione alla prima parte della stagione con le bianconere fino a quando, dopo un duro colpo in area avversaria, già alla quinta settimana di gravidanza, scopre di essere incinta. E’ proprio Palmucci a darle il primo supporto: “Ti aspetto ad agosto per la prossima preparazione, avrai qualche deficit fisico, colmato da una forza mentale che sarà il doppio del solito. E sai che forza ti può dare.. una donna sportiva motivata la paragono a un bilico lanciato in discesa senza freni”.

 

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Cosa hai provato, temuto?

“Inizialmente è stato parecchio traumatico. La paura era più grande di tutto. La paura di perdere tutto quello per cui mi ero sacrificata per anni, come donna e come atleta. Poi la società e le mie compagne hanno ridimensionato queste paure, trasformandole in gioia e opportunità”.

In Spagna le atlete hanno salario minimo, ferie pagate, garanzie per infortuni e maternità, in America ci sono asili nido per le mamme che giocano. Il Cesena come si è comportato?

La società mi paga i rimborsi per seguire le compagne di squadra in trasferta e soprattutto mi ha assicurato la conferma per l’anno prossimo.

Com’è oggi il rapporto coi tuoi genitori? Sono migliorati?

Attualmente è molto positivo, loro hanno fatto grossi passi verso la mia passione, e io ho accettato le loro “debolezze” come genitori. Mia sorella minore gioca a basket, un altro sport con problematiche simili a quelle del calcio, e non è stata mai ostacolata, anzi, viene tuttora seguita quotidianamente. Questo a dimostrazione del loro passo indietro nel confronti dei pregiudizi.

Come vedi il tuo futuro?

Conto di rientrare quanto prima, mi piacerebbe essere a disposizione per l’inizio del prossimo campionato a ottobre. In questo modo avrò la possibilità di passare del tempo che molte mamme lavoratrici non hanno, con mio figlio e allo stesso tempo continuare a costruire Alice come atleta.

 

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Settecasi, l’amazzone che si batte per i diritti: “Noi donne siamo il futuro del calcio”

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La storia di Gabriella Settecasi, siciliana che attualmente gioca in Alto Adige, è paradigmatica di un modo d’intendere il calcio e la vita. Il confronto con l’altro e la capacità di contaminarsi, la tenacia in nome di una grande passione, non importa quanto sottopagata, oscurata, svilita come il calcio femminile di provincia. Se la corsa a ostacoli dell’esistenza fosse narrata con la mitologia, si tratterebbe di un’amazzone: Settacasi cavalca irresistibile lungo la fascia e mira la porta con la precisione di un’arciera; fuori dallo stadio però non dismette l’armatura interiore denunciando ogni ingiustizia ai danni delle ragazze.
Gabriella nasce nel 1991 ad Alessandria della Rocca, nell’Agrigentino, il padre è commerciante, la madre dirigente scolastica. Bambina curiosa e vivace, all’asilo disegna cavalli, quando esce all’aperto segue le partite del fratello maggiore. A soli 5 anni, senza chiedere permesso, va a tirare per la giacca l’allenatore: “Anche io”. Come altre coetanee, Settecasi si dimostra più brava dei maschietti: per due volte è la capocannoniere del torneo misto, rispettivamente con sette e otto marcature, vince trofei come miglior giocatrice. Sennonché in zona, di calcio femminile, non si vede nemmeno l’ombra. I maneggi pure sono lontani, ma il desiderio più grande di Gabriella è di trotterellare sul prato con la palla fra i piedi. Il padre vorrebbe esaudirlo, un giorno lascia il negozio in gestione all’altra figlia e si mette a girare in lungo e in largo per la provincia di Agrigento. Finalmente, a Ribera, scopre una squadra di futsal femminile. “Senza pensarci due volte mi ha iscritto” sorride Settecasi pensando alla famiglia: “Mi hanno sempre sostenuto, accompagnandomi tutte le domeniche per 7 anni alle partite. Anche dopo il trasferimento al nord ci sono sempre stati col cuore, quando possono vengono su a trovarmi e a vedermi giocare. Grazie all’amore che mi hanno dato sono riuscita a rialzarmi da avvenimenti negativi e a tornare in campo più sicura e soprattutto più matura”. La sua prima maturazione tecnica deriva dal cosiddetto “calcetto”, uno sport che ancora oggi molti, con superficialità, considerano minore, un ricettacolo di “pensionati” o di scartati dal Dio pallone. “Nella mia formazione è stato fondamentale il calcio a 5, perchè l’atleta, essendo sempre a contatto con la palla, acquisisce maggiore tecnica e maggiore rapidità nello svolgimento di un’azione. Così, quando ho iniziato a giocare nel calcio 11, ero avanti rispetto alle altre mie compagne”. Gabriella Settecasi vince campionati provinciali, regionali e nazionali con il Ribera, con cui segna fra i 20 e i 25 gol a stagione. La sensazione è che la sua favola possa proseguire all’infinito e contribuire, da Agrigento al resto d’Italia, alla crescita del futsal. Conseguito il diploma tecnico di servizi sociali, tuttavia, la giovane promessa non resiste al richiamo del calcio a 11 accettando l’offerta del Marsala, anche se ciò comporta il trasferimento a 140 chilometri da casa. Sul rettangolo verde viene schierata terzino sinistro per una ragione basica: è l’unica mancina della squadra. Benché la maglia sia la numero 3, la buona corsa e la visione di gioco convincono tutti ad affidarle compiti da ala. Le sue incursioni sulla fascia sono una spina nel fianco costante, dal momento che Settacasi punta e salta l’avversario in scioltezza, trovando lo spazio per quei cross dietro le difese che mandano in difficoltà ogni formazione. E’ la regina dei calci piazzati, comincia dai corner e ben presto acquisisce il diritto a calciare le punizioni. Lega le lunghe crine in una coda, come una valchiria prima del galoppo, scocca tiri che sembrano calibrati con l’arco, dardi fantastici che non si sa donde vengano ma soltanto dove s’incuneano: nel set. Dopo le tre stagioni a Marsala, passato dalla C alla A2, si trasferisce a Palermo, ma la voglia di sperimentare nuove emozioni è troppo forte. “Nel 2012 mi ha contattato il presidente Luca Dalla Torre del Sudtirol Damen e allora ho deciso di intraprendere questo nuovo percorso. Appena arrivata a Bolzano mi sono accorta delle differenze ambientali: lassù le persone sono impassibili, non si fanno conoscere. A livello umano, in generale al nord, dovrebbero aprirsi di più per godersi fino in fondo il calore delle persone che li circondano. Comunque con la Sudtirol Damen mi sono trovata subito bene, ho anche dovuto imparare il tedesco ma ne è valsa la pena. Mi sono detta che l’Alto Adige avrebbe rappresentato il sogno della promozione in serie A e, perché no, di puntare anche alla nazionale”.

 

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La massima serie giunge due anni dopo, nel modo più imprevedibile, ossia in provincia di Catania. Settacasi, che pure era intenzionata a restare in una realtà più organizzata, si tuffa nell’avventura della Acese in B, persuasa delle potenzialità del progetto del presidente Rosario Maugeri. La squadra di Aci Sant’Antonio aveva ben figurato nella stagione precedente, al termine della quale si era piazzata terza nel campionato del centro-Italia dietro Pink Bari e Roma. La nuova arrivata si integra alla perfezione con le compagne, le atlete di esperienza Gioia Masia, Daniela Di Bari e Roberta Giuliano, le giovani promesse Agata Sciacca, Giorgia Foti e Giulia Risina, la regista Jenny Piro e le attaccanti Giusi Bassano, Melania Martinovic e Veronica Privitera, che metterà a segno ben 33 reti. Gabriella sottolinea l’affiatamento del gruppo: “Eravamo proprio unite, dentro e fuori dal campo. Abitavamo quasi tutte nella stessa villa del presidente, ed è stata questa la mossa vincente. Solo tenendo unito un gruppo si ottengono grandi risultati!”. Nel sistema di gioco del tecnico Valerio Caniglia la jolly è Settacasi. In virtù delle molteplici qualità, la numero 3 svolge il ruolo di cursore di fascia, assist-woman e in generale si rivela preziosa nell’equilibrio della squadra, dettando i tempi dei cambi di ritmo. Delle gesta acesi sembra cantare Virgilio nell’Eneide: Intorno a lei scelte compagne stanno: Tulla, Larina vergine e Tarpeia che bronzea squassa le bipenne; italiche che a fregio aveva da se stessa elette la dia Camilla ed a ministre buone per tempo delle pace e della guerra. Tra le “nemiche” nell’arena di gioco, la Roma è la più titolata. Le giallorosse inizialmente sembrano prendere il largo ma l’Acese macina vittorie su vittorie, nel girone di ritorno supera le capitoline facendo registrare un filotto da record: in totale 24 gare vinte su 26, primo posto a 74 punti, ben 13 di distacco sulla Roma. E’ il trionfo pirotecnico delle amazzoni: Allorquando batton del Termodonte le correnti e pugnano con l’armi variopinte o a Ippolita dintorno o alla guerresca Pentesilea che sul suo cocchio torna, e fanno festa coi lunati scudi… [tratto da Virgilio, Eneide, Canto IX, versi 923-944].  La gioia immensa pervade Gabriella a Chieti, città che vuolsi fondata da Achille, l’invincibile acheo, assassino della regina amazzone Pentesilea nella guerra di Troia. E’ il 22 febbraio 2015. Il calcio piazzato di Settecasi, che al secondo minuto trafigge il portiere Nardulli e consegna il primato all’Acese, assume contorni epici. L’atmosfera elettrica attraversa gli spalti e le panchine, tanto che l’allenatore del Chieti sarà espulso, ma è la parabola arcuata e imprevedibile della punizione a rivelare la beffa divina. Il dardo, sospinto da un effetto metacalcistico, s’eleva nell’iperuranio e plana verso l’incrocio finendo per infilarsi in uno spazio angusto, quasi invisibile, fra le mani del portiere e il palo. Come se l’arciera del gol, 3000 anni dopo, avesse vendicato la morte dell’antica regina, scovando l’unico pertugio vulnerabile del Pelide, quel tallone d’aria attraverso il quale la palla si è insinuata in rete.

 

Per Gabriella Settecasi è il gol più importante: “Quella vittoria sofferta per 1-0 ci ha permesso di anticipare la promozione in serie A. Il mister non aveva mai vinto in quel campo ostico e mi ha fatto piacere di avergli regalato questa doppia soddisfazione”. Dopo gli anni d’oro della Jolly Componibili, dell’Orlandia 97 e delle Aquile di Palermo, la provincia di Catania ascende all’Olimpo del calcio. Nel dì di festa l’allenatore Caniglia commenta l’impresa ringraziando gli “innesti mirati” che hanno garantito “una formazione equilibrata in tutti i reparti con alcune individualità di spicco ed altre giovani promesse che in questi anni sono maturate fino a divenire atlete di sicuro affidamento. Il mantenimento della categoria sarà il nostro obiettivo per il prossimo anno”. Il presidente Maugeri promette di organizzare una squadra all’altezza ma le sue parole di una notte di mezza estate sfumano nel grigiore autunnale, al ticchettio di una calcolatrice. Gabriella Settecasi ricorda la mazzata come fosse ieri: “Dopo esserci sudate quella tanto attesa promozione in A, il presidente, quasi a inizio stagione, decide di ritirare la squadra già iscritta al campionato per le troppe spese da affrontare”. Della Sicilia conserva bei ricordi: “Le compagne, le amiche. I tifosi, che con la mia famiglia erano sempre presenti alle partite casalinghe”. E un’amara consapevolezza: “Al sud la realtà del calcio femminile è piuttosto differente rispetto al nord ed in generale il nostro movimento non gode della medesima visibilità. Sicuramente sono stati fatti dei passi in avanti ma ancora, a mio parere, c’è tanto da lavorare per poter arrivare ai livelli di tante squadre italiane”.

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Le offerte fioccano per la terzina speciale, che per un periodo indosserà il 7 e poi la maglia numero 22, in onore della nonna. La sua scelta ricade nuovamente sul Sudtirol Damen, che ha conquistato la massima serie nel girone d’alta Italia. In Alto Adige Settecasi trova lavoro a Vipiteno come operaia nell’azienda del presidente Dalla Torre: si alza presto la mattina, fino alle 16 assembla pezzi per costruire gazebo in un reparto di soli uomini, poi merenda e alle 19 corsa al campo per tre ore di allenamento. In seguito viene assunta al negozio di articoli sportivi Decathlon di Bolzano. Tutte le atlete di provincia, ancorché di valore, percepiscono rimborsi insufficienti, eppure resistono. Per Gabriella l’esordio nella massima serie contro il Mozzanica è il coronamento del sogno: avrà vita breve come la viola del pensiero, fiore privo di profumo come quell’erba di Serie A. Una serie di incidenti sul lavoro fermano la sua cavalcata: “Il momento più brutto è stato l’infortunio al legamento crociato dopo due sole presenze in massima serie. Rientravo da un’altra operazione al ginocchio, mi è crollato il mondo addosso. Non avevo mai pensato di smettere, ma quel terzo infortunio al crociato nel giro di 2 anni mi aveva tolto le forze e l’entusiasmo di andare avanti”. Sospira: “Ho trascorso periodi bui, ricevendo chiamate da tante squadre di A, cito solo il grande Brescia del presidente Cesari che ha giocato la Champions, ma ho dovuto rifiutare perché ero ancora in riabilitazione. Con la forza e la determinazione giusta ho ripreso a calciare quel pallone che tanto mi fa emozionare…”.
Settacasi, l’amazzone che domina la fascia e centra l’angolino, si cura le ferite e indossa l’armatura dell’Unterland Damen, sempre in Alto Adige. A due anni dall’ultimo infortunio riprende a giocare nel campionato nazionale di serie C. “Siamo seconde in classifica e stiamo lottando per poter salire in B come spera il presidente. Non ho perso l’ambizione di puntare sempre in alto e magari qualche soddisfazione ancora potrebbe arrivare…”. Duecentodieci presenze, 30 reti, caterve di assist, il pubblico che si stropiccia gli occhi. “Gli ultimi gol più importanti li ho realizzati contro corazzate come Riozzese, Vittorio Veneto, oggi in B, e Jesina. Ho segnato negli ultimi minuti su punizione regalando gioiose vittorie di misura all’Unterland Damen”.

La calciatrice che più ammiri e quella a cui ti ispiri come modello?

Sicuramente Barbara Bonansea è il mio modello. Avendo lo stesso ruolo, guardando le sue partite, ho imparato movimenti e tocchi di palla che fanno fuori l’avversario. Quella che più ammiro attualmente milita nella Pink Bari in serie A. E’ Jenny Piro, grande esempio di atleta e di vita nello stesso tempo. Giocava già con me ai tempi di Palermo…

Hai disputato altre partite contro i maschi dopo i 12 anni?

Ho giocato con i ragazzi da piccola e la mia tecnica, spesso, era superiore alla loro. Ho rigiocato con i maschi in diverse amichevoli con squadre femminili e in certi casi, ad oggi, la tecnica della donna prevale non solo nell’eleganza e nella creatività di esecuzione, ma anche per lo sviluppo del cervello femminile in sè, che ha una capacità di ascolto maggiore (dovuta all’ippocamo, nda) rispetto a quella degli uomini: la donna apprende cose importanti che l’uomo sottovaluta o crede già di esserne in possesso. Quando si è piccoli, la differenza muscolare non è evidente, ma dopo lo sviluppo la forza fisica di un uomo non è paragonabile a quella della donna, anche perchè le nostra ossa sono più sottili, con una predisposizione maggiore verso gli infortuni.

Le piccole società mettono a disposizione preparatori atletici e fisioterapisti?

Nelle piccole società trovi un/a fisioterapista a disposizione della squadra, ma spesso, e mi dispiace dirlo, non sono all’altezza per recuperare o trattare ragazze sportive. Di preparatori atletici, invece, ce ne sono pochi in giro, e spesso in squadre di categoria inferiore non ce ne sono proprio, sia perchè la mentalità da dilettante non ti fa investire sulla salute delle calciatrici, sia, appunto, per la categoria inferiore stessa che non te lo permette economicamente. Io ho avuto la fortuna di incontrarne uno molto in gamba al Sudtirol: mi ha recuperato dopo 3 operazioni al legamento crociato permettendomi di giocare, ma soprattutto di ambire ancora.

La condizione di dilettante vi lascia senza alcuna copertura sanitaria. A tuo parere si arriverà al professionismo?

Spero il più presto possibile perchè non siamo per niente tutelate e se qualcosa va storto, ti arrangi. Le società se ne lavano le mani, detto chiaro e tondo. Quindi come sempre a lottare saremo noi calciatrici, appassionate di questo sport, cercando di farci notare quando è il momento giusto. Vedi i mondiali disputati in Francia nel 2019, dove molti italiani si sono chiesti: ”Ma perchè le donne giocano a calcio..?!”. Commenti assurdi che sentiamo ancora oggi.Siamo tanto indietro rispetto ad altri nazioni europee, per non parlare degli USA, abbiamo bisogno di più sostegno e più visibilità per raggiungere una parità di diritti con il calcio maschile. Da sempre abbiamo fatto grossi sacrifici, andando a lavorare, ritagliando spazi della nostra giornata per gli allenamenti e le partite domenicali e non. Siamo dilettanti, infatti i nostri campionati iniziano a fine ottobre e se sai giocare al massimo porti a casa 800 euro al mese. Ma ci trattano da professioniste quando ci fanno giocare il 23 dicembre, il 6 gennaio, il 25 aprile…

Cosa dovrebbero fare i club per migliorare la situazione delle calciatrici e favorire l’accesso al calcio delle bambine?

In primis dovrebbero partecipare a formazioni, riunioni, aggiornamenti che si svolgono a Coverciano; introdurre tutte le categorie del femminile, partendo dalle giovanissime fino alla prima squadra, e dovrebbero spingere di più la Federazione ad investire sul calcio femminile, perchè… Noi donne siamo il vero futuro del calcio, un calcio pulito, pieno di passione vera, di fair play, che regala emozioni ad ogni singola persona.

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Fussball/ Frauen Serie C: Unterland Damen – Padova CF, am 14.10.2018 in Kurtinig.

Carolina Morace, intervista esclusiva

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Carolina Morace. Avvocato, pioniera del calcio femminile, bomber e allenatrice, opinionista, Fifa’s Legend, Fifa e Uefa Instructor. Sempre per la FIFA impegnata in Papua Nuova Guinea e in Iran. Prima donna nel 2015 ad entrare nella Hall of Fame istituita dalla Fgci e dalla Fondazione museo del calcio quattro anni prima. Scendendo in campo per un’intervista, mi tremano le gambe… ci provo.

1) Morace centravanti. Esordio a 11 anni a Venezia, tre anni dopo già in Nazionale, un’avventura durata un ventennio e 105 gol, con la quaterna di Wembley nel ’90 che resiste come record assoluto fra uomini e donne; due volte finalista agli Europei, dodici scudetti e 13 volte capocannoniere. Qual è stata la più grande emozione sul campo?

Sicuramente i 4 goals a Wembley. Credo che per ogni individuo che ami il calcio, Wembley rappresenti il Tempio di questo sport. Ed il mio allenatore me l’aveva detto: “Se segni qui puoi dire di essere una giocatrice di calcio”.

2) Che differenze riscontra a livello di gioco fra le squadre femminili di allora e di oggi?

Oggi tatticamente le squadre sono più preparate, noi marcavamo a zona mista con il libero comunque staccato, mai in linea. Era la zona mista di Sacchi con Baresi posizionato sempre qualche metro dietro alla linea difensiva… Adesso giocano tutti a zona poi, in base alle capacità del tecnico, puoi anche vedere un gioco organizzato, i sistemi di gioco sono ben definiti.Tecnicamente eravamo molto forti, certo oggi la velocità è maggiore. Però non è un caso che la mia generazione sia arrivata ad essere per due volte vice campione d’Europa. C’erano giocatrici straordinarie come Vignotto, Ferraguzzi, Bonato, Ciardi, Marsiletti. Tante altre forti, dovrei citarle tutte. Ma non c’era la televisione, anche i dirigenti sono colpevoli perchè venivano a vederci raramente. Sono sicura che avremmo entusiasmato la gente.

3) Solo dal 2015 alcune società professionistiche investono nel calcio femminile, ma le atlete restano ancora senza salario minimo, assistenza sanitaria, contributi previdenziali, Tfr, maternità e ferie pagate. Quali passi concreti occorrono per raggiungere la parità?

Quando si parla di parità bisogna essere chiari. Qui non si invoca la parità salariale. I calciatori generano un business che, forse, un giorno raggiungeremo anche noi. Ma ora siamo solo all’inizio del nostro percorso. Tutto ciò che hai menzionato deve essere la priorità perché è impossibile dare il massimo se non si hanno le minime garanzie sul proprio futuro. Cosa accadrà quando le atlete smetteranno di giocare ed entreranno nel mondo del lavoro con un ritardo di almeno 15 anni rispetto i loro coetanei? E molte atlete decidono di non proseguire gli studi.

4) Nel suo libro, La prima punta (People editore, 2019), racconta come le venne spontaneo giocare a calcio nella struttura della Marina Militare (per via del padre ufficiale) dove c’erano attrezzature sportive.

E’ naturale che in presenza di strutture sportive i bambini siano liberi di sperimentare e scegliere lo sport preferito senza essere condizionati dai genitori. Che di solito, inevitabilmente, scelgono per i figli lo sport da praticare.

5) Il sistema non destina risorse adeguate nei settori giovanili e nelle categorie inferiori del calcio femminile poiché considera insufficiente il ritorno economico in termini di immagine e pubblicità. Come superare questa barriera anche culturale?

Scegliendo le giuste persone nei posti chiave. Non è un caso che il progetto di sviluppo del calcio femminile sia stato fatto da un manager cinquantenne, Michele Uva, quando era direttore generale della Federazione (dal 2009 al 2018 nda).

6) Passiamo a Morace tecnico: prima donna al mondo ad allenare una squadra maschile, la Viterbese in C1 nel 1999. Come andarono le cose?

Dopo la partita persa fuori casa con il Crotone per 5 a 3 (con 3 calci di rigore contro) mi chiamò Gaucci dicendo che voleva licenziare il mio preparatore fisico, il professor Luigi Perrone. Io gli risposi che se avesse mandato via lui avrebbe dovuto mandare via anche me. Gaucci mi disse ‘no, lei non la mando via’ ed allora io gli dissi che mi sarei dimessa. La stima era reciproca. Mi fece poi chiamare da tutti ma un’interferenza del genere, quando capita una volta, capiterà anche la seconda volta. Tanti allenatori accettano, io no.

7) Alla guida della Nazionale italiana nel 2004 conquistò il quarto posto nella Algarve Cup, dopo aver battuto Cina e Finlandia. La Federazione, all’epoca, aveva intenzione di investire nel progetto?

No.

8) Da ct del Canada, con staff tutto italiano, conquistò la Concacaf Women’s Gold Cup nel 2010, poi è stata allenatrice e direttrice tecnica di Trinidad e Tobago. Le sostanziali differenze tra questi paesi e il nostro come organizzazione e come impatto sul pubblico?

In Canada il calcio femminile è lo sport più popolare, in Italia siamo ancora indietro ma sulla buona strada se la Figc continuerà a credere in questo sport. A Trinidad & Tobago sono in via di sviluppo ed hanno molti problemi organizzativi in genere.

9) Perché le calciatrici Usa sono le più preparate atleticamente del mondo?

Il bacino in cui scegliere è molto ampio, crescono da generazioni a generazioni facendo sport. Sarà in grado di battere le americane una squadra che reggerà il loro passo, con l’aiuto dell’organizzazione di gioco: si può fare. In questo Mondiale ho visto qualcosa tatticamente solo dalla nazionale olandese e da quella italiana.

10) Alla vigilia indicò come sorpresa del torneo proprio l’Olanda, poi arrivata in finale attraverso un gioco veloce e divertente. Il loro campionato esiste solo da 12 anni, sono semiprofessioniste da poco, l’attenzione mediatica è scarsa e gli stadi semivuoti. Qual è il loro segreto?

La cultura. Ogni paese ha la sua cultura.

11) Cosa pensa dell’insegnamento del futsal nelle scuole calcio come fanno in Sudamerica?

Se troviamo nelle nostre scuole uno spazio da adibire a futsal perchè no? Ma non credo ci siano molti spazi nelle scuole italiane. E’ giusto che lo sport in Italia sia demandato alle squadre dilettantistiche, che perciò dovrebbero essere sostenute maggiormente dal governo soprattutto con la formula degli sgravi fiscali. E mi riferisco alle sponsorizzazioni, unica fonte di sostentamento per queste società.

12) Trent’anni fa a Roma lei fondò una scuola di calcio mista. Oggi è finalmente una prassi diffusa – da alcune ricerche ho scoperto che in alcune realtà, come Parma e nel Bresciano, le prime squadre interamente femminili, a 12 anni, hanno battuto i coetanei maschi. Fino a che età pensa sia utile giocare contro i ragazzi in campionato e quando invece incontrarli solo in amichevole?

Io non sono nemmeno per le amichevoli. Se una squadra professionistica contrappone alle donne dei quattordicenni, fisicamente rimangono leggermente più forti, magari meno coordinati ma il loro è un calcio da ragazzi, non da adulti. Il calcio delle donne è un calcio da adulti. Il misto va bene dall’età infantile fino alla pubertà.

13) Il maschilismo ambientale oggigiorno è diminuito? Ricordo un suo gol spettacolare da trenta metri: lo definirono casuale, eppure, se fosse stato Maradona…

In Italia ci sono tante persone intelligenti e di media cultura ma anche molti ignoranti. E l’ignoranza qui è un vanto, non una vergogna. Io da tanto tempo non mi interesso più dell’opinione delle persone che non stimo. Poi, avendo vissuto all’estero, vedo sempre più il nostro paese come una piccola parte di un universo ben più grande.

14) Il talento va riconosciuto e coltivato. Esiste oggi fra le donne, in termini assoluti, un genio alla Messi o forse è nascosto in qualche campetto di periferia?

No, non c’è attualmente una Messi ma tante brave giocatrici.

15) La ct Bertolini ha sostenuto che il “calcio di Guardiola è femmina”, perché le atlete sono più propense al possesso palla, al fraseggio e al gioco corto. Parlando di tattica il femminile semiprofessionistico non esisteva ai tempi delle squadre maschili che hanno fatto la storia: la grande Honved, l’Olanda di Michels, il Milan di Sacchi o il calcio utilitaristico di Herrara e Trapattoni. Quale sistema di gioco preferisce e quale pensa sia più adatto al calcio femminile?

Non c’è un sistema più adatto al calcio femminile, valuto quello che è più adatto alle qualità delle mie giocatrici, dei miei giocatori. Per questo motivo noi allenatori non dovremmo avere un sistema preferito.
(intervista realizzata il 31 gennaio 2020)

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Corpo, il nostro film indipendente negli States Sarà proiettato all’università del Connecticut

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Corpo, la sceneggiatura, il film… e presto arriverà il romanzo
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Una bellissima esperienza che ha visto crescere insieme professionisti e giovani provenienti da settori diversi. Il film indipendente diretto da Francesco Guida e dal sottoscritto è stato girato l’estate scorsa nelle zone fra Paestum, Agropoli e Castellabate. La sceneggiatura di Corpo era stata buttata giù mesi prima, currenti calamo, e non è stato necessario organizzare casting particolari. Fortunatamente si sono costituiti due gruppi di attori, soprattutto giovani ma con l’apporto di alcuni esperti, uno campano e uno emiliano: Paolo Agresta di San Marco di Castellabate, già veterano interprete di teatro, la nuova scoperta Luigi Pascale, attore della compagnia teatrale Eduardo De Filippo, Lucio Russo, fotografo ferrarese che ha avuto piccoli ruoli nelle fiction Coliandro 6, Gomorra 4, Il Caso Pantani e L’alligatore; Miriam Treglia e Agnese Negrelli, giovani allieve di Sandra Moretti, insegnante del liceo Pico e fondatrice della compagnia Fata Morgana di Mirandola. In occasione della lettura drammatizzata della mia commedia Lou Salomé adattata dalla stessa Sandra nell’aprile 2019, le sue migliori allieve si distinsero ricevendo il plauso generale di professori, assessori comunali e spettatori: in seguito pertanto Agnese Negrelli e Miriam Treglia sono state preparate da Sandra Moretti  per recitare nel film Corpo, assieme ai più consumati attori e ai coetanei Gerardo Bove e Luigi Tramutola, al carpigiano Stefano Stradi e altri attori di Castellabate quali Costabile Scarano, Anna Aversano, Luigi Tramutola, Assunta Della Mura, Deborah Guercio, Martina Pinto, Sarah Di Luccio, Fatima Sarnicola e tanti altri che leggerete nei titoli di coda.  Si ringraziano per la partecipazione straordinaria anche Lucio Isabella, poeta e artigiano del Cilento, le suore della comunità Santa Scolastica, la famiglia Malzone per la location sul belvedere e la famiglia Vassallo per gli studi di Costantino, che ha incentrato la sua prolusione di presentazione del film, alla fiera dei libri del sud, sul concetto di Corpo come prigione in Proust. Anche a livello tecnico la sinergia è stata importante: Francesco Guida era il mio assistente alla regia, ma di fatto è il co-regista, ha curato tutti i montaggi in studio ed ha supportato le riprese accanto ai cameraman Lazzaro Addesso e Antonia Agresta; Enrico Nicoletta ha fornito ulteriore competenza tecnica e per quanto riguarda le musiche il compositore Antonio Sessa ha realizzato la colonna sonora e tutti i sottofondi esclusivamente per Corpo.
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Com’è andata? Presto per dirlo, non abbiamo la possibilità di distribuire la pellicola nelle sale ma siamo iscritti a festival del cinema che Francesco Guida ben conosce, essendo statopremiato  già vent’anni orsono come miglior regia e montaggio al Festival Internazionale di Salerno (qui in foto con Claudia Koll durante la consegna del primo premio).
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Inoltre, se in occasione della prima proiezione privata, a Castellabate, espresse apprezzamento l’unico ospite esterno, il prof. Gennaro Malzone, fondatore della Fiera dei Libri del Sud, nella seconda proiezione a casa dei genitori di Agnese (nella foto sottostante) è stata invitata un’insegnante di Cinema e Letteratura italiana negli Stati Uniti, la pdh Monica Martinelli. Alla serata “nordica” erano presenti tutti i componenti del cast e della troupe tranne gli amici del Cilento, impossibilitati per la distanza ma collegati in diretta tramite mezzi telematici per vivere assieme emozioni e commenti. Le azioni e i dialoghi più avvincenti non hanno riguardato solo i due protagonisti maschile e femminile, laddove l’interpretazione di Miriam Treglia è stata mirabile, ad esempio la sintonia registrata fra Agnese Negrelli e Luigi Pascale ha stupito tutti per professionalità e passione. L’intreccio degli avvenimenti ha evidenziato le differenze caratteriali e anche dialettali dei personaggi del film, come lo scaltro emiliano Lucio Russo e il melodrammatico “napoletano” Paolo Agresta, mentre Gerardo Bove, in forza dei propri studi delle lingue slave, ha esibito un ottimo accento russo. Costabile Scarano, già in Benvenuti al Sud, è stato accreditato della battuta più divertente, ma è stata tutta la squadra a partecipare con gioia e intensità. Al liceo Alfonso Gatto di Agropoli le studentesse in autogestione, supportate dalla professoressa Antonella Lauretti e dal dirigente Saverio Prota, hanno dato vita a una scena coinvolgente assieme alle attrici protagoniste, così come il Parco Archeologico di Paestum è stato teatro di momenti particolarmente suggestivi. Le cornici paesaggistiche delle scogliere e di una montagna incontaminata che si affaccia sul mare cristallino non sono da meno dei significati storici e simbolici dei paesi attraversati. Alla fine l’insegnante di Cinema e Letteratura italiana in America, Monica Martinelli, è rimasta colpita favorevolmente dal nostro film e ha già proposto di far proiettare Corpo (dopo i festival, nel prossimo semestre) durante le lezioni che tiene all’università del Connecticut, come “spunto educativo per le tematiche trattate”: Gender studies e altro, ma non vorrei “spoilerare”!
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Il film Corpo:

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Patrizia Caccamo, la pittrice del gol

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In vista della pubblicazione del mio primo libro sul calcio femminile anticipo la storia di Patrizia Caccamo, che sabato scende in campo per l’esordio con il Deportivo a Palma di Maiorca. I suoi tabellini sono da record, ma i duecentosei gol e gli innumerevoli assist dipinti in vent’anni fra serie A e B, non ne tratteggiano appieno il talento e il percorso extra-ordinario.

Vive il periodo d’oro della Fiorentina dei Della Valle, apripista dei club che investono nel calcio femminile, durante il quale si aggiudica lo scudetto, due coppe Italia e la Supercoppa. Gioca otto partite in Nazionale, l’ItalViola del commissario tecnico Antonio Cabrini che si qualifica agli Europei dei Paesi Bassi e getta le basi per il successivo exploit mediatico delle azzurre ai Mondiali. Gli addetti ai lavori e gli spettatori beneficiano delle splendide giocate di Patrizia,  un esterno offensivo che parte a sinistra e dialoga con le compagne, ama sterzare verso la porta e scoccare conclusioni a giro con ambedue i piedi. Il dribbling secco, arricchito da un possesso palla funambolico, e la potente velocità inducono non pochi tifosi a invocarla nell’altra metà del calcio, in luogo degli attaccanti viola.

Se Alex Del Piero, rientrando dalla fascia, pennellava nel sette come Pinturicchio, restando nelle arti figurative Patrizia Caccamo rimanda all’espressionismo. E’ tutta la vita di questa ragazza a rappresentare un inno alla fantasia, un vortice che tocca profondità arcane, assumendo i contorni metasportivi di un viaggio ai confini della realtà.
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Patrizia Caccamo nasce nel 1984 a Wickede, nel nord della Renania, dove i nonni e i genitori siciliani sono emigrati per lavorare in fabbrica. La famiglia favorisce l’emergere della sua vocazione, e poi la sostiene unitamente: “Da bambina ero spesso nervosa, così il pediatra disse ai miei di farmi praticare sport per scaricare la tensione. Giocavo sempre con il pallone in casa, ovunque, allora papà mi iscrisse alla scuola calcio. Avevo solo sei anni. Mi ricordo la prima partita: facevo i castelli di sabbia con un compagno, ma da quel giorno la mia vita è cambiata”. Che stia accadendo qualcosa di grande si percepisce subito. Patty gioca nel campionato maschile coi coetanei tedeschi, è l’unica femmina e si destreggia ottimamente: a 8 anni è la capocannoniere del torneo. Una volta alla settimana va a lezione di italiano, continua nel misto fino a tredici anni, quando si misura con due campionati diversi: sabato quello maschile, domenica le partite con le ragazze. Dalle giovanili in Germania alla Serie A italiana il passo è lungo quanto il ritorno nel suolo patrio. “Nel maggio del 2000 ero andata in vacanza in Sicilia dai nonni, un cugino mi fece fare un provino col Gravina. Mi presero subito, senza esitazioni, anche perchè io non volevo trasferirmi. Mamma utilizzò le sue vacanze per riportarmi in agosto e consentirmi di andare in ritiro con la squadra. Lei poi salì in Germania a lavorare lasciandomi coi nonni… Ma nel giro di due mesi i miei genitori ci raggiunsero: da sempre avevano l’obbiettivo di tornare in Sicilia. Si conobbero in Germania, anche se a Paternò stavano a sei traverse di distanza”. Il fato. “Io credo nel destino”.

Patrizia Caccamo a sedici anni esordisce nella massima serie. La squadra non è attrezzata per traguardi ambiziosi, lotta con le unghie e con i denti per restare in serie A, ma Patty si distingue subito. Col pallone fra i piedi disegna arabeschi e vede subito la porta. Dopo tre partite è già in Nazionale Under 18: alla prima amichevole indossa una maglia pesante, il numero 10. “Gravina è la mia famiglia, dove i grandi si prendevano cura dei piccoli. Il presidente non mi diceva mai brava per paura che mi montassi la testa. Bellissimi momenti… Rifiutai la proposta della Torres perché volevo stare in squadre in cui eravamo amici”. Il calcio come momento ludico collettivo che unisce, quella è la dimensione fondamentale. “In Sicilia si gioca ancora per strada, nei piazzali, davanti a casa, usando il garage come porta. La gente si lamenta, ogni volta che tiri si sente un boato”.

Le ragazze del Gravina, quasi tutte della provincia di Catania, sono affiatate in partita perché si aiutano nella vita, si ospitano a vicenda proprio come una famiglia allargata. E su quel campetto ai piedi dell’Etna non mancano le giocate pirotecniche. Caccamo ne ricorda una particolare: “Mi lanciano, io parto e vado in contrasto con un armadio, siamo Davide contro Golia: tutte e due cadiamo a terra, alzo la testa e vedo la palla che carambola in area. Il portiere esce, io da terra inizio a camminare a palmo della mano in giù e coi piedi avanzo… fintanto che non tocco la palla di punta anticipando il portiere. Un gol che mi è costato una tendinite acuta del tibiale”. I più gravi infortuni nella carriera di Patrizia saranno la rottura dell’alluce e uno strappo dell’inserzione del quadricipite. Lei matura una teoria per prevenirli: “Non fare stretching prima di allenamenti duri e partite. Il muscolo non deve rilassarsi, al contrario va caricato prima della gara. Ognuno è libero di fare quello che vuole ma per la mia esperienza garantisco che se eviti lo stretching non ti rompi cadendo male”.

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A Gravina si susseguono sei stagioni tormentate e fantastiche: la felicità per le salvezze è più forte delle amare quanto inevitabili retrocessioni, però mancano le risorse, le calciatrici debbono affrontare scomode trasferte e intanto sono costrette a lavorare per guadagnarsi da vivere, come tutte le colleghe nelle società dilettantistiche. Caccamo, ancora giovanissima, trova un posto in un bar per raccattare qualche soldo per l’estate, ma le compagne più grandi “dopo aver lavorato tutto il santo giorno staccavano e… venivano al campo”. Non tutti gli uomini le vedono di buon occhio. Nell’isola del delitto d’onore e del matrimonio riparatore, cancellati legislativamente neanche vent”anni prima, per molti le donne devono restare imprigionate nei ruoli di mogli casalinghe e figlie castigate, sotto lo sguardo proprietario di mariti e padri. Per essere considerata una “svergognata” da un uomo di Neanderthal basta una gonna sotto al ginocchio, figurarsi maglietta e calzoncini. Patrizia supera in scioltezza il problema culturale: “Laggiù la donna che gioca viene sottovalutata, in generale anche in Italia. Io chiedevo sempre di entrare durante le partite dei ragazzi nei quartieri, loro non volevano… Finché non mi vedevano giocare e allora mi accoglievano”.
Il presidente del Gravina vaga in lungo e in largo ma non trova sponsor, s’impegna per un gruppo mai domo fino al tracollo economico: la squadra deve trasferirsi a Paternò, infine si dissolve a causa del fallimento della società. “Lo venni a sapere durante un torneo estivo in Puglia. Me lo disse Graziella Ricci, una cara amica con cui giocavamo in spiaggia ogni anno. Lei è la presidente della squadra femminile di Torre Pedrera, nel Riminese. Dispiaciuta mi mostrò i fogli della federazione: “Guarda qui, il Gravina non è iscritta ad alcun campionato”. Eravamo incredule. Da una parte mi piangeva il cuore, dall’altra pensai che potevo andare dove volevo perché da quel momento il cartellino era mio. Iniziarono a chiamare le società, anche grandi, ma io scelsi il Torre Pedrera. Tra lavoro e campo ero felicissima, con Graziella non ci siamo mai lasciate, continua a venire a giocare con me d’estate. E’ la mia seconda madre”. Ricci è una delle pioniere del calcio femminile, lavora con perseveranza con le giovanissime e costruisce un gruppo solido che conquista la serie B. Nel divertimentificio di Rimini, con le discoteche e le notti brave, Patrizia non cede alle distrazioni e si allena duramente. In principio trova impiego in un bar, poi in un negozio di abbigliamento.

cervia

Dopo un solo anno passa al Ravenna, perché ora la sua volontà è di sperimentare: “Desideravo fare diverse esperienze. Infatti scesi di nuovo in Sicilia con l’Acese, un’altra società che gestiva tutto con sacrifici”. Il comune di Sant’Antonio reca il prefisso Aci in ossequio alla leggenda greca dell’omonimo pastorello ucciso da Polifemo. Il ciclope s’invaghì di Galatea ma non accettò il rifiuto, gettando per vendetta un masso di lava sul suo amato Aci. La ninfa versò lacrime sul corpo inerme e gli dèi trasformarono il sangue del pastore in un piccolo fiume. Patrizia Caccamo è il punto di riferimento per l’Acese, reincontra una tifoseria calda, una folla accogliente come quella che i pittori rinascimentali disegnano per Galatea in trionfo, sopra un conchiglia trainata da delfini. Sono tre stagioni ricche di soddisfazioni e marcature, finché la bomber che parte dalla fascia decide di stabilirsi al centro: un campionato a Sezze, la città laziale che si vuole fondata da Ercole, e una a Napoli, sempre sulla scia del mito greco. Il feeling non scatta, appena cinque reti per ciascuno, sicché Patrizia incede oltre, senza tema, nel labirinto itinerante che la riporta al punto di partenza, dove rinverdisce gol e sorriso: Aci e Romagna, stavolta in serie A nel Riviera, squadra di Cervia. Benchè siano trascorsi tre lustri, il sapore delle vittorie nella massima serie è lo stesso.

 

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Patrizia Caccamo approda sulle rive dell’Arno nel 2015, proprio l’anno in cui i Della Valle acquiscono il titolo del Firenze, società dilettantistica di calcio femminile fondata 36 anni prima. Le viola diventano la prima squadra italiana di un club maschile e finalmente si avvalgono di un importante staff tecnico, di strutture e comunicazione.
Il dirigente Sandro Mencucci, già protagonista della traversata nel deserto della Fiorentina maschile, salvata dai Della Valle dopo il crac e ripartita dalla C2, giura di “scrivere la Storia del calcio femminile”. Patty invero non ci sta pensando: “Avevo appena trovato un buon lavoro, potevo entrare in azienda con il contratto a tempo indeterminato. Ma poi mi chiamò Sauro Fattori“. E’ il tecnico che allena già da tre anni le ragazze della società dilettantistica Firenze. Da attaccante Fattori ebbe l’umiltà di esordire con Antognoni e di passare il resto dei suoi campionati in B e C, cambiando casacca una dozzina di volte, praticamente ogni stagione. Adesso crede fermamente nel progetto. Con lui tanti professionisti, donne e uomini, dentro e fuori dal campo. La bomber della Nazionale Patrizia Panico, a quarant’anni, rinuncia a disputare la Champions League col Verona allo scopo di abbattere tutti i pregiudizi sulle calciatrici. A Firenze, hic et nunc, nasce il semi-professionismo.
La forza delle gigliate è ancora in nuce, il primo anno la squadra comincia a macinare gioco ma il progetto necessita di tempo per dispiegarsi. Le giglate si piazzano al terzo posto dietro il super Brescia di Milena Bertolini. Caccamo viene insignita della pergamena dedicata alla migliore giocatrice della rosa. “All’inizio non riuscivo ad esprimermi, ma poi grazie alla fiducia del mister tutto venne da sè. Scudetto, Nazionale, Coppa e Supercoppa. Un’emozione indescrivibile…”.
Il titolo giunge al secondo tentativo, al termine di un’appassionante testa a testa con le leonesse, culmine di una cavalcata durata quindici vittorie consecutive, ventuno su ventidue totali. Per la sfida decisiva contro il Tagnavacco, il 6 maggio 2017 allo stadio Franchi, accorrono circa ottomila persone. E’ un evento di partecipazione per il calcio femminile, secondo solo alla semifinale di Champions League raggiunta dal Bardolino nove anni prima, quando al Bentegodi Patrizia Panico e le scaligere sfidarono il Frankfurt davanti a quasi quattordicimila spettatori. Caccamo segna il gol che sblocca il risultato: “Ilaria Mauro libera Alia Guagni che si invola sulla fascia, crossa rasoterra, io brucio l’avversario e la piazzo nell’angolo”. Un’altra pennellata l’anno seguente bacia la finale di Coppa Italia contro il Brescia, vinta per 3-1 sul campo di Noceto: “Tatiana Bonetti batte un calcio d’angolo, un difensore allontana di testa nella mia zona, io colpisco al volo di collo esterno e gonfio la rete sotto la traversa”.

 

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Il numero sulla maglia non tragga in inganno. Che sia il 7, il 9, o in seguito il 19, numero legato al nonno e indossato dopo la sua morte, Caccamo resta la dominatrice della fascia e una goleador di razza. Dal battesimo nelle azzurrine non ha più portato il 10. I cronisti però la paragonano a Roberto Baggio per la velocità palla al piede e a Francesco Totti per la potenza.  Patrizia, nome che evoca i nobili discendenti di Romolo,  ha una predilezione per il re della capitale. Quando sente nominare er Pupone, espande il sorriso come una farfalla: “Lo conobbi su iniziativa di una mia amica, che mi fece una sorpresa. Sapeva che la Roma alloggiava in un albergo vicino e con un pretesto mi ci portò. L’incontro con Totti fu un regalo bellissimo”. Non ama i confronti col calcio maschile: “Una donna non può competere come forza e velocità con un atleta uomo. Come tecnica, invece, sì”. Soprattutto, non essendo professionista, è costretta a sacrifici maggiori, senza salari adeguati e tutele. “A Firenze non lavoravo, ero calciatrice a tempo pieno. Sostenevo sei, sette allenamenti a settimana. La vita privata, pian piano, era diventata zero”. Comunque la passione per il calcio vinceva su tutto: “Senza non so stare. La mia vacanza ideale è nel Salento: la mattina mare, la sera torneo Futsal”.
Alla fine della stagione 2017-2018, anziché scendere in ferie, Patty trasvola insieme al portiere Noemi Fedele negli Stati Uniti. L’Osa Seattle, presieduta dall’italiano Giuseppe Pezzano, disputa la Women’s Premier Soccer League, un campionato estivo di secondo livello cui però partecipano anche le iridate Alex Morgan e Abby Wambach. Pezzano si interessa al calcio delle donne grazie alla centrocampista del Fiammamonza Alessandra Nencioni (ora in forza al Napoli), lancia la squadra femminile e diventa partner della Fiorentina, che invia tecnici per la formazione dei giovanissimi, nonché Alia Guagni, Valentina Giacinti, Francesca Vitale, Martina Capelli, Deborah Salvatori Rinaldi. Caccamo resta affascinata dall’organizzazione del soccer femminile più avanzato del pianeta: “E’ stata un’esperienza bellissima in tutto e per tutto. L’host family, i campi in sintetico e coperti, l’annesso centro di riabilitazione. Nell’immensa struttura di Seattle, giustamente, era vietato bere alcol e fumare. Eravamo quarantacinque giocatrici, quasi tutte del college, molte facevano gli stage. Venivano osservatori da tutta America e dal Canada, ragazze e ragazzi selezionati ricevevano borse di studio. Tecnicamente non sono molto forti, ma la loro fisicità è impressionante. Seguono un corso a parte per la preparazione contro gli infortuni. Un fatto mi colpì: un’avversaria era incinta di cinque mesi eppure giocava…”.

 

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Alla ripresa in Italia Patrizia assaggia per la prima volta il freddo della panchina. Il nuovo allenatore Antonio Cincotta scommette sull’attaccante del Tagnavacco e della nazionale scozzese Lana Clelland, classe 1993. Sessantasei presenze e quarantuno gol in tre anni, sintonia invidiabile con le compagne che esibiscono un giuoco rapido e spettacolare: per Caccamo è tutto finito. “Sono andata via perché il feeling con Cincotta non è mai nato. A malincuore, fra le lacrime, ho dovuto abbandonare Firenze per mia scelta”. Come Galatea per la fine di Aci, Patrizia lascia un fiume di ricordi alla sua Firenze e s’inoltra nelle nebbie padane firmando con l’Atalanta Mozzanica. Purtroppo la presidente bergamasca Ilaria Sarsilli naviga in cattive acqua a causa della scelta del club maschile di cessare la collaborazione con il femminile. A fine stagione l’Atalanta dichiara lo scioglimento lasciando a piedi Patrizia, che ha ancora negli occhi il passato prossimo gigliato. Osserva i cambiamenti in corso nella Fiorentina, acquistata da Rocco Commisso, e critica la scelta di lasciar fuori Sandro Mencucci, fra i dirigenti più impegnati per il movimento femminile: “Presi le difese di Mencucci perché se lo meritava pienamente. Nessuno aveva preso posizione ma io dico ciò che penso e lo farò sempre senza paura”.
Patty Caccamo ha 35 anni, le recenti delusioni la inducono a riflettere sull’eventualità di attaccare il pennello al chiodo. Il suo, adesso, è un urlo di Munch sullo sfondo di un vulcano in eruzione? No, la bambina che tirava pallonate di gioia fra i castelli di sabbia e nel sette dei garage, non smette di giocare neppure fra i lapilli dell’esistenza. Milita in serie B nel Vittorio Veneto e nell’estate 2019 vince lo scudetto di beach soccer con il San Benedetto del Tronto. “Anche gli uomini della Sambenedettese hanno vinto e noi abbiamo fatto il tifo, viceversa loro sono stati i nostri supporter. E’ il mio primo anno di beach soccer, nel gruppo ero la motivatrice, facevo scaricare la tensione”. Ormai peró Patrizia è stanca di com’è diventato il campionato italiano, per cui rifiuta l’offerta del Perugia e saluta il Belpaese. Torna in mezzo al mar Mediterraneo, in un’altra isola inebriata da antichi profumi, fondata nel secondo secolo avanti Cristo dal console romano Quinto Cecilio Metello. Al sorgere del 2020 è a Palma de Maiorca per vestire la maglia nel Deportivo Collerense, seconda divisione spagnola. Seduta accanto in aereo ritrova l’amica Noemi Fedele, che saluta le compagne viola senza polemiche, al pari della team manager Tamara Gomboli. “Firenze lo sai, non è servita a cambiarla” cantava la poesia di Ivan Graziani. Narrava l’addio di una giovane pittrice: “Gettò i suoi disegni con rabbia giù da Ponte Vecchio: Io sono nata da una conchiglia diceva. La mia casa è il mare e con un fiume no, non la posso cambiare“.
Caccamo non sceglie il gioiello naturale delle isole Baleari come buen retiro, ma per ricominciare: “In Italia si sta puntando solo sulle straniere. Qui siamo professioniste, abbiamo il contratto di lavoro. Cerco sempre di migliorarmi nonostante l’età”. Il futuro? “Lo vedo sempre nel mondo del calcio. Mi piacerebbe fare il talent scout oppure il personal trainer sul campo, come sto già facendo. E tornare a casa, in Sicilia”. Forse sul candore sabbioso e l’iridescenza marina Patrizia non cavalca come Galatea una conchiglia trainata da delfini, ma dipingerà sempre meravigliose traiettorie.

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Calcio femminile, sorelle d’Italia

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Nazionale“Il calcio non è per signorine”. Alla frase attribuita al mediano della Pro Vercelli Guido Ara, risalente al 1909, in oltre un secolo, se ne sono aggiunte una montagna. “La donna non capisce niente di pallone”. “Le giocatrici sono brutte, scarse e mascoline”. “La lobby lesbica comanda il calcio femminile”. Quante volte abbiamo sentito tale miscela di irrazionalità, sessismo e volgarità? I soggetti in questione, affetti da misoginia più o meno consapevole, sono certamente una minoranza della galassia maschile ma possono contare sull’approvazione implicita e silenziosa di un numero considerevole di persone. Il cittadino medio accetta che le donne pratichino discipline come il tennis, il nuoto e l’atletica, già fatica di più a tollerare sport di gruppo come il volley, il basket o la pallamano femminile. Il calcio no, quello proprio non passa. Eppure l’unico limite di questo sport, che come ogni cosa umana vale sia per le donne sia per gli uomini, è lo sviluppo della sola muscolatura delle gambe, fattore aggravato dal fatto che le società dilettantistiche mediamente trascurano la preparazione fisica di base. Gli elementi positivi sono invece molteplici, perché il calcio rafforza lo spirito di gruppo, abitua al confronto e alla sconfitta, educa al rispetto delle regole e alla lealtà verso i rivali, sviluppa la logica, l’orientamento e l’estro. I più ottusi, coloro i quali si sentono i depositari della sacra fiamma dello sport, sono convinti che le femmine siano fisicamente fragili a prescindere dalla preparazione atletica, e psicologicamente instabili, pronte a scoppiare in lacrime al primo pestone. Ovviamente anche il rugby femminile, parente del football finché i giocatori prendevano la palla con le mani, equivale ad una bestemmia.
I contrasti di gioco calcistici, anche i tackle più duri, non presentano controindicazioni come quelli del rugby, dove il regolamento è stato rivisto per entrambi i sessi con l’introduzione del fallo di “unnecessary roughness”, al fine di ridurre le commozioni cerebrali. E poi per quale motivo essi considerano normale il pugilato e la “lotta nel fango” femminile, oggettivamente violenti? Questa specifica idiosincrasia nei confronti delle calciatrici non ha alcun senso, sì ben afferisce ad un timore atavico di perdita del comando, fors’anche del telecomando. Se due donne si rotolano come scimmie a suon di pugni e calci, lorsignori non avvertono alcun rischio per il genere maschile, tutt’al più cercano una forma di sollazzo voyeristico, il medesimo che i media forniscono agghindando “veline” negli studi televisivi e propalando degradanti photogallery dove il “lato B” delle campionesse ne occulta le performance sportive.
Su un piano diverso, che però attinge al medesimo pregiudizio di fondo, ci sono le obiezioni di tipo tecnico. In tale ambito, la sciocchezza che circola sulle donne che non hanno il fisico per giocare viene sostituita da severi giudizi di addetti ai lavori, secondo i quali “le femmine non riescono a reggere 90 minuti su campi grandi come quelli maschili” e “non sono in grado di arbitrare le partite degli uomini”. Di recente un telecronista, a pochi minuti dall’inizio di una partita di Eccellenza, si è espresso in dolcestilnovo: “E’ uno schifo vedere le donne che vengono a fare gli arbitri. E’ una barzelletta della Federazione. Annalisa Moccia della sezione di Nola… Eccola qui, preghiamo la telecamera di inquadrarla… la vedete… una cosa impresentabile per un campo di calcio”. Lo sfogo irrefrenabile in diretta televisiva diventa materiale interessante dal punto di vista psicoanalitico giacché, al netto degli evidenti limiti culturali, l’aggressività con venature di angoscia è una reazione primordiale all’impossibilità di soddisfare una pulsione, un caso di frustrazione latente nel preconscio. Nel capolavoro felliniano La città delle donne Marcello Mastroianni, durante un viaggio in treno, viene turbato da un’avvenente passeggera, sicura e misteriosa: dopo un rapido flirt in toilette, la ragazza fugge e Mastroianni, seguendola, finisce in mezzo ad un’assemblea di femministe assetate di vendetta, una dimensione onirica che esprime la fobia dell’intellettuale benpensante per i meandri dell’universo muliebre. In maniera analoga il telecronista, mutatis mutandis, esce di senno alla vista della guardalinee precipitando in un incubo a occhi aperti: la privazione del calcio, “citta degli uomini”, ultimo feticcio esclusivo del patriarcato. In entrambi i casi, i protagonisti sono incapaci di rimuovere contenuti mentali estremamente sgraditi come le pari opportunità, e quindi il confronto autentico, senza filtri, tra i sessi.
Eppure codesti “signori del calcio per soli uomini” dovrebbero accettare i semplici dati di realtà: le donne disputano partite a buon ritmo negli stessi campi adoperati dai club maschili e arbitrano brillantemente le partite più importanti. In italia le direttrici di gara sono milleseicento ma è preclusa loro la Serie A, a differenza di Francia e Germania, capofila con l’esordio in Bundesliga nel 2017, mentre nei tornei internazionali sono in campo già da tempo: nel 2004 la francese Nicole Petignat arbitrò per la prima volta nelle qualificazioni della Coppa Uefa, altre si sono susseguite fino a raggiungere, tre lustri dopo, la finale di Supercoppa europea fra Liverpool e Chelsea. La partita, giocata a Istanbul, è stata diretta magistralmente da Stephanie Frappart, affiancata dalle guardalinee Manuela Nicolosi, italiana che durante la stagione opera nel paese transalpino, e l’irlandese Michelle O’Neal. La stessa terna femminile il mese precedente aveva arbitrato la finale dei Mondiali femminili vinta dagli Stati Uniti sull’Olanda. Un’autogestione che dimostra come il calcio delle donne non sia un film, una possibilità futuribile temuta o agognata, ma una solida e virtuosa realtà.
Forse tutto questo sarà stato uno shock per il tifoso italiano più retrogrado, ma anche lui ha dovuto digerirlo. Magari si sarà chiuso gli occhi e tappato le orecchie durante l’inno di Mameli cantato dalle ragazze di Milena Bertolini al Mondiale di Francia anziché dall’undici di Giampiero Ventura, eliminato nei gironi di qualificazione.
Dov’è la vittoria? Lo hanno chiarito le azzurre a seguito della sconfitta ai quarti di finale contro le professioniste olandesi: nel riconoscimento dei diritti che sono garantiti ai lavoratori di ogni settore. Dall’Alpi a Sicilia chiedono salari adeguati, maternità e ferie pagate, tfr, contributi previdenziali per avere una pensione. E poi assistenza sanitaria in caso di malattia e infortuni, a cui sono più esposte degli uomini. Quante squadre possono permettersi, non solo in prima squadra ma anche nelle giovanili, bravi medici, psicologi, fisioterapisti, preparatori atletici, allenatori specializzati nei vari ruoli che abbiano il patentino e abbiano studiato scienze motorie, che siano in grado di insegnare la tecnica e prevenire i traumi?

Per quanto riguarda la retribuzione, a norma di legge, le italiane possono siglare solo un accordo economico non superiore ai 12 mesi e con limiti oggettivamente ingiusti: il tetto massimo è di 30.658 euro lordi a stagione mentre non è stato ancora stabilito un salario minimo. Secondo una ricerca condotta dal quotidiano economico <<Il Sole 24 Ore>>, calcolando le modifiche del regolamento Figc fra “indennità di trasferta, rimborsi forfettari e premi”, una calciatrice di serie A, in media, “guadagna intorno ai 15mila euro lordi annui”. La differenza con gli uomini è abnorme. Solo dal 2015 i club più lungimiranti hanno iniziato a gestire squadre femminili, attualmente sono nove, ovvero la Lazio in B e le altre otto nella massima serie: Fiorentina, Juventus, Lazio, Roma, Milan, Inter, Verona, Sassuolo ed Empoli. La Fiorentia di San Gimignano ha solo la formazione femminile mentre Tavagnacco, Pink Bari e Orobica di Bergamo sono società dilettantistiche. E se la media per la A è quella sopracitata, i sacrifici si moltiplicano per le atlete delle categorie inferiori. I rimborsi, che partono dalla miseria di un centinaio di euro, non superano gli 800 per una serie B d’alta classifica e una provinciale di A. Per rendersi conto di quanto sia impervia e lunga la strada per la parità basti pensare che le campionesse americane, capaci di dare lustro e sviluppo al sistema calcio statunitense, sono in lotta da anni contro la discriminazione sessuale: alla vigilia del Mondiale il premio individuale per le giocatrici era di 99mila dollari per 20 amichevoli vinte mentre per gli uomini la cifra saliva a 263mila dollari più vari dalla ventunesima partita disputata in poi.

Le italiane, artefici di un Mondiale e di campionati interessanti, dove il gioco espresso si è non di rado rivelato tecnico e fantasioso, anche nelle serie inferiori e nel calcio a 5, sono le uniche fra le prime otto nazionali a restare confinate nei dilettanti. Tuttavia, non hanno alcuna intenzione di porgere la chioma, piegandosi al conformismo della passerella una tantum.
L’Italia s’è desta perché le azzurre dopo vent’anni hanno giocato un campionato del mondo e sono entrate nelle case, nei bar, nei maxischermi del Belpaese. Nessuno può ignorare quanto accaduto, simulando che si sia trattato di un effetto transitorio o di una moda. I dati ufficiali forniti dalla Fifa sono inequivocabili: 1 miliardo e 120 milioni di persone ha seguito il torneo in televisione, sulle piattaforme digitali e in luoghi pubblici. La finale è stata vista complessivamente da 82 milioni e 180mila cittadini, in aumento del 56% rispetto alla sfida decisiva del precedente Mondiale in Canada. Le cinque gare disputate dalle azzurre hanno fatto registrare in Italia 24 milioni e 410 mila telespettatori con uno share medio del 31,84%. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ricevendo la delegazione dell’Italia femminile, ha esordito con un emblematico: “Scusate il ritardo”. Il Capo dello Stato, oltre a confermare l’evidenza della conquista “dell’opinione pubblica”, e alla consueta prudenza, chè “non tocca a me stabilire le forme in cui si decide il calcio”, ha però riconosciuto alcuni elementi importanti: “Non è razionale e non è accettabile una diversa condizione tra calcio femminile e maschile. Al di là dell’elevato tasso tecnico, da parte vostra è stato molto minore il ricorso agli infingimenti”.

sara gama

Stando ai dati aggiornati al giugno 2018, le tesserate italiane sono 25.986, tra le quali 12.908 minorenni, in aumento del 70% rispetto a vent’anni orsono. Le bambine dai 6 ai 16 anni possono giocare in squadre miste con i maschi o in squadre femminili che disputano il campionato dei ragazzi, la Figc dal 2015 obbliga i club di serie A a tesserare almeno ulteriori 20 calciatrici under 12, rispetto alla stagione precedente, all’interno del proprio settore giovanile. Ciononostante, il livello resta quello della Svizzera. L’Italia occupa il diciottesimo posto in Europa per tesserate under 18 con una percentuale dello 0,3%, la Svezia fa registrare il 15%, l’Olanda il 6,7% e la Germania il 3%. La Fgci riserva solo 4 milioni e 200 mila euro al calcio femminile contro i 15,4 milioni della Football Association inglese, i 10 milioni di Germania e Francia, i 7,7 della Norvegia e i 5,7 della Svezia. Dunque non deve stupire che le tesserate tedesche siano duecentomila, le svedesi e le olandesi oltre centocinquantamila e le francesi centoventicinquemila.
Il problema è sia generale, se consideriamo la riduzione delle ore di ginnastica alle scuole elementari, sia specifico. Stando a un’indagine Uefa, una bambina italiana, per giocare a calcio, deve spostarsi dai venti ai quaranta chilometri dal luogo di residenza, mentre in Germania la distanza è di dieci chilometri. Secondo la ct Bertolini “raramente le bambine trovano un’accoglienza che le incentiva, che le spinge a continuare per cui o sono super motivate o lasciano. Bisogna stimolare i dirigenti delle società di calcio di quartiere a spianare la strada a bambine e famiglie, ad andare a cercare le ragazze e accoglierle con entusiasmo, solo così allarghi la base, cosa fondamentale per la crescita del movimento. Non bisogna dimenticare due cose: che il calcio è lo sport di squadra più praticato dalle donne nel mondo e che di conseguenza legato al movimento c’è un aspetto commerciale molto potente che in altri Paesi hanno colto perfettamente, mentre da noi ancora no”. La situazione sta lentamente migliorando perché esistono dei modelli di riferimento, le campionesse della Nazionale usano i social e s’impegnano in prima persona. Il macigno da rimuovere è sempre di natura culturale. L’allenatrice della Nazionale ha raccontato alla Gazzetta dello Sport: “Quando ho iniziato io per giocare dovevi assumere atteggiamenti maschili, altrimenti non venivi accettata dal gruppo, venivi esclusa. Adesso è molto più semplice. È chiaro che il pensiero medio dell’italiano è ancora quello che la ragazza che gioca a calcio è una donna strana ma le cose stanno cambiando, soprattutto tra i giovani. Chi ha una certa età non cambia più, ma i giovani sono diversi. Per questo è fondamentale il ruolo e l’appoggio dei media”.
Elisa Bartoli, capitana della Roma e difensore della Nazionale, è stata intervistata ieri sera da Serena Dandini nel programma di Rai3 Stati Generali, ultima puntata di un’isola felice nel panorama mediatico generalista. Bartoli spiega che “i pregiudizi ci scivolano addosso, siamo concentrate sul piacere di giocare. Io non mi sento una calciatrice, perchè non sono una professionista. Ho iniziato coi maschietti, ne ho viste tante di difficoltà. Non siamo riconosciute come professioniste ma andiamo avanti finché avremo emozioni e sensazioni bellissime”. Giulia Nicastro, arbitro, è oggetto di turpiloquio ogni settimana: un giocatore per protesta dopo un’ammonizione si è levato i pantaloni mimando atti sessuali. Lei lo ha espulso, ma i genitori le davano della prostituta, Giulia non ha fatto una piega, continuando la partita: “Ho pensato tante volte chi me lo facesse fare, potrei stare a casa senza insulti. Mi fa male, però penso che vedermi ancora lì, dopo tutto quello che mi hanno detto, è una bella risposta”.

 

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