Nazionale“Il calcio non è per signorine”. Alla frase attribuita al mediano della Pro Vercelli Guido Ara, risalente al 1909, in oltre un secolo, se ne sono aggiunte una montagna. “La donna non capisce niente di pallone”. “Le giocatrici sono brutte, scarse e mascoline”. “La lobby lesbica comanda il calcio femminile”. Quante volte abbiamo sentito tale miscela di irrazionalità, sessismo e volgarità? I soggetti in questione, affetti da misoginia più o meno consapevole, sono certamente una minoranza della galassia maschile ma possono contare sull’approvazione implicita e silenziosa di un numero considerevole di persone. Il cittadino medio accetta che le donne pratichino discipline come il tennis, il nuoto e l’atletica, già fatica di più a tollerare sport di gruppo come il volley, il basket o la pallamano femminile. Il calcio no, quello proprio non passa. Eppure l’unico limite di questo sport, che come ogni cosa umana vale sia per le donne sia per gli uomini, è lo sviluppo della sola muscolatura delle gambe, fattore aggravato dal fatto che le società dilettantistiche mediamente trascurano la preparazione fisica di base. Gli elementi positivi sono invece molteplici, perché il calcio rafforza lo spirito di gruppo, abitua al confronto e alla sconfitta, educa al rispetto delle regole e alla lealtà verso i rivali, sviluppa la logica, l’orientamento e l’estro. I più ottusi, coloro i quali si sentono i depositari della sacra fiamma dello sport, sono convinti che le femmine siano fisicamente fragili a prescindere dalla preparazione atletica, e psicologicamente instabili, pronte a scoppiare in lacrime al primo pestone. Ovviamente anche il rugby femminile, parente del football finché i giocatori prendevano la palla con le mani, equivale ad una bestemmia.
I contrasti di gioco calcistici, anche i tackle più duri, non presentano controindicazioni come quelli del rugby, dove il regolamento è stato rivisto per entrambi i sessi con l’introduzione del fallo di “unnecessary roughness”, al fine di ridurre le commozioni cerebrali. E poi per quale motivo essi considerano normale il pugilato e la “lotta nel fango” femminile, oggettivamente violenti? Questa specifica idiosincrasia nei confronti delle calciatrici non ha alcun senso, sì ben afferisce ad un timore atavico di perdita del comando, fors’anche del telecomando. Se due donne si rotolano come scimmie a suon di pugni e calci, lorsignori non avvertono alcun rischio per il genere maschile, tutt’al più cercano una forma di sollazzo voyeristico, il medesimo che i media forniscono agghindando “veline” negli studi televisivi e propalando degradanti photogallery dove il “lato B” delle campionesse ne occulta le performance sportive.
Su un piano diverso, che però attinge al medesimo pregiudizio di fondo, ci sono le obiezioni di tipo tecnico. In tale ambito, la sciocchezza che circola sulle donne che non hanno il fisico per giocare viene sostituita da severi giudizi di addetti ai lavori, secondo i quali “le femmine non riescono a reggere 90 minuti su campi grandi come quelli maschili” e “non sono in grado di arbitrare le partite degli uomini”. Di recente un telecronista, a pochi minuti dall’inizio di una partita di Eccellenza, si è espresso in dolcestilnovo: “E’ uno schifo vedere le donne che vengono a fare gli arbitri. E’ una barzelletta della Federazione. Annalisa Moccia della sezione di Nola… Eccola qui, preghiamo la telecamera di inquadrarla… la vedete… una cosa impresentabile per un campo di calcio”. Lo sfogo irrefrenabile in diretta televisiva diventa materiale interessante dal punto di vista psicoanalitico giacché, al netto degli evidenti limiti culturali, l’aggressività con venature di angoscia è una reazione primordiale all’impossibilità di soddisfare una pulsione, un caso di frustrazione latente nel preconscio. Nel capolavoro felliniano La città delle donne Marcello Mastroianni, durante un viaggio in treno, viene turbato da un’avvenente passeggera, sicura e misteriosa: dopo un rapido flirt in toilette, la ragazza fugge e Mastroianni, seguendola, finisce in mezzo ad un’assemblea di femministe assetate di vendetta, una dimensione onirica che esprime la fobia dell’intellettuale benpensante per i meandri dell’universo muliebre. In maniera analoga il telecronista, mutatis mutandis, esce di senno alla vista della guardalinee precipitando in un incubo a occhi aperti: la privazione del calcio, “citta degli uomini”, ultimo feticcio esclusivo del patriarcato. In entrambi i casi, i protagonisti sono incapaci di rimuovere contenuti mentali estremamente sgraditi come le pari opportunità, e quindi il confronto autentico, senza filtri, tra i sessi.
Eppure codesti “signori del calcio per soli uomini” dovrebbero accettare i semplici dati di realtà: le donne disputano partite a buon ritmo negli stessi campi adoperati dai club maschili e arbitrano brillantemente le partite più importanti. In italia le direttrici di gara sono milleseicento ma è preclusa loro la Serie A, a differenza di Francia e Germania, capofila con l’esordio in Bundesliga nel 2017, mentre nei tornei internazionali sono in campo già da tempo: nel 2004 la francese Nicole Petignat arbitrò per la prima volta nelle qualificazioni della Coppa Uefa, altre si sono susseguite fino a raggiungere, tre lustri dopo, la finale di Supercoppa europea fra Liverpool e Chelsea. La partita, giocata a Istanbul, è stata diretta magistralmente da Stephanie Frappart, affiancata dalle guardalinee Manuela Nicolosi, italiana che durante la stagione opera nel paese transalpino, e l’irlandese Michelle O’Neal. La stessa terna femminile il mese precedente aveva arbitrato la finale dei Mondiali femminili vinta dagli Stati Uniti sull’Olanda. Un’autogestione che dimostra come il calcio delle donne non sia un film, una possibilità futuribile temuta o agognata, ma una solida e virtuosa realtà.
Forse tutto questo sarà stato uno shock per il tifoso italiano più retrogrado, ma anche lui ha dovuto digerirlo. Magari si sarà chiuso gli occhi e tappato le orecchie durante l’inno di Mameli cantato dalle ragazze di Milena Bertolini al Mondiale di Francia anziché dall’undici di Giampiero Ventura, eliminato nei gironi di qualificazione.
Dov’è la vittoria? Lo hanno chiarito le azzurre a seguito della sconfitta ai quarti di finale contro le professioniste olandesi: nel riconoscimento dei diritti che sono garantiti ai lavoratori di ogni settore. Dall’Alpi a Sicilia chiedono salari adeguati, maternità e ferie pagate, tfr, contributi previdenziali per avere una pensione. E poi assistenza sanitaria in caso di malattia e infortuni, a cui sono più esposte degli uomini. Quante squadre possono permettersi, non solo in prima squadra ma anche nelle giovanili, bravi medici, psicologi, fisioterapisti, preparatori atletici, allenatori specializzati nei vari ruoli che abbiano il patentino e abbiano studiato scienze motorie, che siano in grado di insegnare la tecnica e prevenire i traumi?

Per quanto riguarda la retribuzione, a norma di legge, le italiane possono siglare solo un accordo economico non superiore ai 12 mesi e con limiti oggettivamente ingiusti: il tetto massimo è di 30.658 euro lordi a stagione mentre non è stato ancora stabilito un salario minimo. Secondo una ricerca condotta dal quotidiano economico <<Il Sole 24 Ore>>, calcolando le modifiche del regolamento Figc fra “indennità di trasferta, rimborsi forfettari e premi”, una calciatrice di serie A, in media, “guadagna intorno ai 15mila euro lordi annui”. La differenza con gli uomini è abnorme. Solo dal 2015 i club più lungimiranti hanno iniziato a gestire squadre femminili, attualmente sono nove, ovvero la Lazio in B e le altre otto nella massima serie: Fiorentina, Juventus, Lazio, Roma, Milan, Inter, Verona, Sassuolo ed Empoli. La Fiorentia di San Gimignano ha solo la formazione femminile mentre Tavagnacco, Pink Bari e Orobica di Bergamo sono società dilettantistiche. E se la media per la A è quella sopracitata, i sacrifici si moltiplicano per le atlete delle categorie inferiori. I rimborsi, che partono dalla miseria di un centinaio di euro, non superano gli 800 per una serie B d’alta classifica e una provinciale di A. Per rendersi conto di quanto sia impervia e lunga la strada per la parità basti pensare che le campionesse americane, capaci di dare lustro e sviluppo al sistema calcio statunitense, sono in lotta da anni contro la discriminazione sessuale: alla vigilia del Mondiale il premio individuale per le giocatrici era di 99mila dollari per 20 amichevoli vinte mentre per gli uomini la cifra saliva a 263mila dollari più vari dalla ventunesima partita disputata in poi.

Le italiane, artefici di un Mondiale e di campionati interessanti, dove il gioco espresso si è non di rado rivelato tecnico e fantasioso, anche nelle serie inferiori e nel calcio a 5, sono le uniche fra le prime otto nazionali a restare confinate nei dilettanti. Tuttavia, non hanno alcuna intenzione di porgere la chioma, piegandosi al conformismo della passerella una tantum.
L’Italia s’è desta perché le azzurre dopo vent’anni hanno giocato un campionato del mondo e sono entrate nelle case, nei bar, nei maxischermi del Belpaese. Nessuno può ignorare quanto accaduto, simulando che si sia trattato di un effetto transitorio o di una moda. I dati ufficiali forniti dalla Fifa sono inequivocabili: 1 miliardo e 120 milioni di persone ha seguito il torneo in televisione, sulle piattaforme digitali e in luoghi pubblici. La finale è stata vista complessivamente da 82 milioni e 180mila cittadini, in aumento del 56% rispetto alla sfida decisiva del precedente Mondiale in Canada. Le cinque gare disputate dalle azzurre hanno fatto registrare in Italia 24 milioni e 410 mila telespettatori con uno share medio del 31,84%. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ricevendo la delegazione dell’Italia femminile, ha esordito con un emblematico: “Scusate il ritardo”. Il Capo dello Stato, oltre a confermare l’evidenza della conquista “dell’opinione pubblica”, e alla consueta prudenza, chè “non tocca a me stabilire le forme in cui si decide il calcio”, ha però riconosciuto alcuni elementi importanti: “Non è razionale e non è accettabile una diversa condizione tra calcio femminile e maschile. Al di là dell’elevato tasso tecnico, da parte vostra è stato molto minore il ricorso agli infingimenti”.

sara gama

Stando ai dati aggiornati al giugno 2018, le tesserate italiane sono 25.986, tra le quali 12.908 minorenni, in aumento del 70% rispetto a vent’anni orsono. Le bambine dai 6 ai 16 anni possono giocare in squadre miste con i maschi o in squadre femminili che disputano il campionato dei ragazzi, la Figc dal 2015 obbliga i club di serie A a tesserare almeno ulteriori 20 calciatrici under 12, rispetto alla stagione precedente, all’interno del proprio settore giovanile. Ciononostante, il livello resta quello della Svizzera. L’Italia occupa il diciottesimo posto in Europa per tesserate under 18 con una percentuale dello 0,3%, la Svezia fa registrare il 15%, l’Olanda il 6,7% e la Germania il 3%. La Fgci riserva solo 4 milioni e 200 mila euro al calcio femminile contro i 15,4 milioni della Football Association inglese, i 10 milioni di Germania e Francia, i 7,7 della Norvegia e i 5,7 della Svezia. Dunque non deve stupire che le tesserate tedesche siano duecentomila, le svedesi e le olandesi oltre centocinquantamila e le francesi centoventicinquemila.
Il problema è sia generale, se consideriamo la riduzione delle ore di ginnastica alle scuole elementari, sia specifico. Stando a un’indagine Uefa, una bambina italiana, per giocare a calcio, deve spostarsi dai venti ai quaranta chilometri dal luogo di residenza, mentre in Germania la distanza è di dieci chilometri. Secondo la ct Bertolini “raramente le bambine trovano un’accoglienza che le incentiva, che le spinge a continuare per cui o sono super motivate o lasciano. Bisogna stimolare i dirigenti delle società di calcio di quartiere a spianare la strada a bambine e famiglie, ad andare a cercare le ragazze e accoglierle con entusiasmo, solo così allarghi la base, cosa fondamentale per la crescita del movimento. Non bisogna dimenticare due cose: che il calcio è lo sport di squadra più praticato dalle donne nel mondo e che di conseguenza legato al movimento c’è un aspetto commerciale molto potente che in altri Paesi hanno colto perfettamente, mentre da noi ancora no”. La situazione sta lentamente migliorando perché esistono dei modelli di riferimento, le campionesse della Nazionale usano i social e s’impegnano in prima persona. Il macigno da rimuovere è sempre di natura culturale. L’allenatrice della Nazionale ha raccontato alla Gazzetta dello Sport: “Quando ho iniziato io per giocare dovevi assumere atteggiamenti maschili, altrimenti non venivi accettata dal gruppo, venivi esclusa. Adesso è molto più semplice. È chiaro che il pensiero medio dell’italiano è ancora quello che la ragazza che gioca a calcio è una donna strana ma le cose stanno cambiando, soprattutto tra i giovani. Chi ha una certa età non cambia più, ma i giovani sono diversi. Per questo è fondamentale il ruolo e l’appoggio dei media”.
Elisa Bartoli, capitana della Roma e difensore della Nazionale, è stata intervistata ieri sera da Serena Dandini nel programma di Rai3 Stati Generali, ultima puntata di un’isola felice nel panorama mediatico generalista. Bartoli spiega che “i pregiudizi ci scivolano addosso, siamo concentrate sul piacere di giocare. Io non mi sento una calciatrice, perchè non sono una professionista. Ho iniziato coi maschietti, ne ho viste tante di difficoltà. Non siamo riconosciute come professioniste ma andiamo avanti finché avremo emozioni e sensazioni bellissime”. Giulia Nicastro, arbitro, è oggetto di turpiloquio ogni settimana: un giocatore per protesta dopo un’ammonizione si è levato i pantaloni mimando atti sessuali. Lei lo ha espulso, ma i genitori le davano della prostituta, Giulia non ha fatto una piega, continuando la partita: “Ho pensato tante volte chi me lo facesse fare, potrei stare a casa senza insulti. Mi fa male, però penso che vedermi ancora lì, dopo tutto quello che mi hanno detto, è una bella risposta”.