D’Alema a Consorte: “Facci sognare! Vai” “Diranno che sei amico di Fiorani ma…”

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Follow the money. Se tre indizi del solido legame fra la Lega e la partitocrazia, espressa da D’Alema, fanno una prova ci troviamo dinanzi a:

 – maxitangente Enimont, versata da Raul Gardini sia al Pds che alla Lega oltre al pentapartito, quando il Carroccio si spacciava per accanito oppositore della partitocrazia, mentre ne era l’unico baluardo sotto le mentite spoglie del finto rinnovamento

– inciucio ininterrotto: Commissione Bicamerale di D’Alema con Berlusconi e Lega, approvazione bipartisan di controriforme giudiziarie, il niet leghista all’autorizzazione richiesta dalla magistratura all’arresto di Previti e Dell’Utri, stimato pubblicamente da Nicola Latorre, e via seguitando fino alle attuali medesime posizioni di Salvini-centrodestra e centrosinistra su tagli ai privilegi degli onorevoli, prescrizione, intercettazioni, carcere agli evasori,  legge spazzacorrotti, contrarietà alla revoca delle concessioni autostradali ai Benetton.

– gli investimenti della Lega in Enel e Ilva, già finanziatrice nel 2013 della campagna elettorale del segretario Pd Bersani, nonché gli affari del gas, dagli incontri di Salvini a Mosca al gasdotto russo Tap nel Salento dalemiano.

– l’incrocio di interessi dei rappresentanti della partitocrazia, Lega e Berlusconi da un lato, centrosinistra all’altro, emersi nel 2005. Con le telefonate inerenti alla scalata bancaria di Unipol a Bnl, giudicata penalmente non rilevante, la brama di potere di D’Alema subisce un temporaneo freno. La pubblicazione delle conversazioni con l’amministratore delegato dell’assicurazione rossa, impegnato nell’assalto  alla Bnl con l’appoggio di finanzieri di area leghista come Gianpiero Fiorani, sono un macigno morale per D’Alema. Eppure nel 2006 “la volpe del tavoliere” cerca comunque, tramite una proposta di Piero Fassino sul Foglio di Giuliano Ferrara, l’uomo dell’Est e di Berlusconi, già craxiano e cossighiano,  di salire al Colle. La resistenza di Gianfranco Fini, che avrebbe denunciato innanzi all’elettorato di centrodestra l’ appoggio berlusconiano e leghista a D’Alema, risulta decisiva.

Nel gennaio 2022, e lo scrivo sin d’ora per primo nell’ottobre 2020, in occasione della prossima elezione del Presidente della Repubblica, in Parlamento non ci saranno Fini, estromesso e massacrato mediaticamente a suo tempo, gli ambientalisti, frammentati e  ininfluenti (in Germania i Verdi viaggiano dal 10 al 20%), progressisti o liberali realmente indipendenti. Il solo M5S, verosimilmente ridimensionato nelle urne, non potrà incidere e la partitocrazia avrà buon gioco a giustificare l’inciucio maximo. Tuttavia, se l’opinione pubblica conoscesse la vera storia degli scandali politico-bancari che ci apprestiamo a leggere, il Parlamento resterebbe prono a tutto pur di soddisfare l’ossessione di D’Alema per il Quirinale?

Le scalate bancarie incrociate targate Lega e Ds

Il 7 luglio 2005 l’amministratore delegato di Unipol Giovanni Consorte sta parlando al deputato Ds Nicola Latorre dell’accordo con Caltagirone e soci che favorisce la scalata del colosso assicurativo rosso alla Bnl. Improvvisamente passa il telefonino a D’Alema, a cui Consorte ricorda la dura necessità. Trovare i soldi: “Sto riunendo i cooperatori perché sono tutti gasati, entusiasti e… moralmente contenti, gli ho detto: ”Però dovete darmi dei soldi, non è che potete solo incoraggiarmi, perché il coraggio ce l’ho da solo”, no?”.
D’Alema: Di quanti soldi hai bisogno ancora?
Consorte: Non di tantissimo, di qualche centinaio di milioni di euro.
D’Alema: E dopodiché fate da soli?
Consorte: Sì- Unipol, cinque banche, quattro popolari e una banca svizzera
[…]. Ah no! C’è Hopa, anche Hopa ce lo fa. E andiamo avanti. Avremo il 70
per cento di Bnl […]. Secondo te, Massimo, ci possono rompere i coglioni a
quel punto?
D’Alema: No, no, no.
Consorte: Non credo proprio [ride].
D’Alema: Sì, qualcuno storcerà il naso, diranno che tu sei amico di Gnutti e
Fiorani, ma…
Consorte: Ma possono dire quello che vogliono, ma non è ver… cioè è vero
che sono amico, ma è anche vero che io faccio tutto da solo, non lo faccio
con…
D’Alema: Va bene. Vai avanti, vai!
Consorte: Massimo, noi ce la mettiamo tutta.
D’Alema: Facci sognare! Vai!
Consorte: No, anche perché se la facciamo abbiamo recuperato un pezzo di
storia, Massimo, perché la Bnl era nata come banca del mondo cooperativo,
eh!
D’Alema: E si chiama “del Lavoro”, quindi possiamo dimenticare?
Consorte: Guarda, ti dico, è da fare uno sforzo mostruoso, ma… vale la pena
a un anno dalle elezioni”.

Quando i contenuti delle telefonate filtrano sui giornali, il danno d’immagine e di credibilità per la sinistra è incalcolabile. “Beato quel popolo che non ha bisogno di Prodi” è la battuta sarcastica che circola in quegli anni ai piani alti dei Ds. Eppure. In questa sede è interessante notare come la scalata di Unipol a Bnl sostenuta dai dalemiani nel fatidico 2005 sia intrecciata alle operazioni finanziarie poste in essere da Gianpiero Fiorani, banchiere leghista doc, per mettere le mani su Antonveneta. Si tratta di una banca padovana che due anni dopo finisce al centro di trame finanziarie fra Mps e Banco di Santander, istituto vicino all’Opus dei che riceverà una cifra spropositata dai senesi. (Il collega Ferruccio Pinotti ha scritto in Opus dei segreta circa i legami fra certi mondi cattolici e D’Alema, insignito col titolo di viceconte in Vaticano nel 2006, notizia che però sarà divulgata solo 4 anni più tardi).
Fiorani fu il salvatore della Lega quando risolse il problema dei problemi del Carroccio: la Popolare Credieuronord, una piccola banca creata a dicembre 2000 per “ritrovare i valori tipici della creatività e della collaborazione del Nord”. A finanziarla, dopo una campagna a tappeto nelle sezioni del partito, è stato il popolo leghista. Ma già nel 2003 la banca del Carroccio è a un passo dal fallimento: il bilancio si chiude con 8 milioni di euro di perdite e 12 di sofferenze su 47 di impieghi. Nel cda siedono i sottosegretari leghisti del governo Berlusconi (2001): Maurizio Balocchi (Interni), Alberto Brambilla (Welfare), Stefano Stefani (Attività produttive), ma anche e soprattutto Giancarlo Giorgetti. Con Gianpiero Fiorani il Carroccio ha legami antichi: la scuola leghista di Varese e il prato di Pontida, quello che ogni anno riempie di bandiere verdi per i comizi di Bossi, sono stati acquistati con soldi della Popolare di Lodi per un totale, fra fidi e finanziamenti, di 10 milioni di euro, più un altro milione proveniente dalla Popolare di Crema, controllata dalla Lodi. Tutti soldi ottenuti offrendo in pegno la storica sede milanese del partito, il palazzo di via Bellerio. Operazioni regolari, ma sintomatiche di un rapporto preferenziale, che ora viene sfruttato a fondo per evitare il crac di Credieuronord. Fiorani riesce a tenere in piedi la banchetta con una complicata operazione finanziaria. In cambio, ottiene la retromarcia della Lega sul governatore. Il 3 febbraio 2005 Maroni comunica ufficialmente che la Lega non mette più in discussione il mandato a vita del governatore di Bankitalia Fazio. E’ la tomba della legge sul risparmio. Sarà Gianpiero Fiorani, davanti ai pm milanesi, a raccontare anche questo patto con la Lega: salvataggio della banca in cambio del salvataggio del governatore. La trattativa coi leghisti, racconterà ai magistrati, era cominciata già nel novembre 2004, con un incontro con Maroni: “Avvenne nel suo ufficio, c’erano anche Calderoli e Giorgetti (all’epoca presidente della Commissione Bilancio alla Camera e segretario della Lega, nda). Si parlò della posizione della Lega in merito al progetto sul ddl risparmio, fino a quel momento decisamente avverso nei confronti dei poteri del governatore su concorrenza bancaria e mandato a vita. […]. L’idea del salvataggio di Credieuronord da parte nostra nacqua da Brambilla, già sottosegretario al ministero del Lavoro e promotore finanziario di Bpl. Un sabato a Lodi incontrai lui e Giorgetti. Seppure non posi la questione in termini espliciti, era chiaro nei miei intendimenti che il salvataggio di Credieuronord si legava alla ricerca di un consenso della Lega: prima nei confronti dei progetti di Bpl, poi per modificare la posizione ostile della Lega nei confronti del governatore”. Pure Bankitalia dà l’imprimatur al salvataggio. Durante una telefonata tra il banchiere di Lodi e l’alto funzionario di Bankitalia, Angelo De Mattia, “la persona attraverso la quale Fazio gestiva i propri rapporti con gli esponenti di spicco dell’ambiente politico”, quest’ultimo si augura che l’operazione porti la Lega “quantomeno a non contrastare con noi”.(cfr. Mani Sporche, Marco Travaglio, Peter Gomez, Gianni Barbacetto). 

Ma torniamo ai rapporti fra mondo finanziario rosso e leghista. Gianni Consorte e il numero due di Unipol Ivano Sacchetti hanno un continuo scambio di favori con Gianpiero Fiorani. A volte sono affari personali o di mercato, ma Consorte, impegnato in prima persona accanto al tesoriere Ds Ugo Sposetti nella ristrutturazione dei debiti della Quercia, ottiene degli aiuti da Fiorani anche in operazioni che interessano direttamente il partito. Il 28 dicembre 2015, subito dopo l’arresto, l’ex banchiere di Lodi rivela che fu Consorte a chiedergli di dare una mano a un’immobiliare dei Ds vicina al tracollo, rilevando lo stabilimento milanese che ospitava la redazione e la tipografia de . ”Voglio segnalare un’ulteriore operazione con Consorte. Si tratta della società Beta immobiliare, dell’area diessina, società che era in grave crisi finanziaria ed era esposta anche nei confronti di Banca Popolare di Lodi. Consorte mi chiese di evitare che questa società arrivasse al fallimento. Fu così che trasformai il nostro credito nell’acquisto di un immobile in viale Fulvio Testi a Milano. L’operazione venne chiusa anche con l’intervento nella società Tosinvest che faceva capo agli Angelucci (ras della sanità privata ed editori di e del ,nda)”. Per quanto riguarda le scalate bancarie di Banca Popolare di Lodi ad Antonveneta e di Unipol a Bnl, contestuali e collegate anche a quella più velleitaria dell’immobiliarista romano Stefano Ricucci al gruppo Rcs, Fiorani lascia le impronte digitali a partire dal novembre 2004: tramite decine di prestanomi e di società offshore finanziati di nascosto con soldi della stessa Bpl, il banchiere lodigiano rastrella ingenti pacchetti di azioni Antonveneta. Poi, verso metà gennaio, viene affiancato nell’operazione da una serie di alleati che acquistano titoli su titoli: tra questi, oltre a Ricucci, il finanziere bresciano Emilio Gnutti e il duo Consorte-Sacchetti. La legge Draghi impone di dichiarare al mercato acquisti consistenti di azioni e di lanciare l’Offerta pubblica di acquisto quando, direttamente o indirettamente, si arriva al 30 per cento di una società. Invece, ancora ai primi di aprile, la Popolare di Lodi(nel frattempo ribattezzata Popolare Italiana) assicura nei suoi comunicati di non possedere “nè direttamente né indirettamente altre partecipazioni al capitale sociale di Antonveneta” oltre a quelle segnalate alla Consob. Fiorani e compagni sanno di avere il governatore Fazio dalla loro parte: nel 2006 Fazio si troverà imputato per concorso in aggiotaggio, con l’accusa di essersi impegnato con Fiorani a ostacolare i rivali della banca olandese Abn Amro ritardando il rilascio di autorizzazioni alla sua Opa su Antonveneta, per “consentire alla Banca Popolare di Lodi di proseguire il rastrellamento occulto delle azioni”. Inoltre, secondo i pm, Fazio in persona “nel corso di periodici incontri riservati”, esortò Fiorani e Boni a effettuare “acquisizioni indirette di partecipazione e la costituzione di patti occulti”. In quelle settimane concitate, in parallelo alla scalata ad Antonveneta, partono anche quella di Unipol a Bnl, in contrapposizione con l’Ops dei baschi di Bilbao, e quella di Ricucci alla Rcs. Ricucci, azionista della Bnl e alleato di Fiorani nell’arrembaggio ad Antonveneta, nell’aprile 2005 annuncia di aver superato il 5 per cento di Rcs Mediagroup, la società che controlla il . Le tre scalate sono condotte con gli stessi metodi dalle stesse persone, anche se con ruoli diversi. Al centro di tutto c’è un comitato d’affari composto da Ricucci, altri immobiliaristi romani come Danilo Coppola e Giuseppe Statuto, Fiorani, Consorte, Gnutti. La strategia è chiara. La notte del 12 luglio, quando Fiorani riceve l’ok da Fazio , Gnutti parla con un certo Ivano, probabilmente Sacchetti, riferendogli dell’autorizzazione. Ivano risponde che “Caltagirone ieri ha visto Berlusconi, ma soprattutto ha visto Letta ieri l’altro. Ha detto che c’era un po’ di preoccupazione”. Gnutti risponde: “Non c’è assolutamente preoccupazione. Ho detto a Berlusconi che a loro interessava molto appoggiare Gianpiero perché dall’altra parte stanno facendo quell’altra (Unipol-Bnl, nda). Per cui, per una questione di equilibrio, si fa una per una, quindi vado in appoggio anche di là. Berlusconi ha risposto va bene”. Il fatto è che, come rivelerà proprio Fiorani ai pm, Consorte ha addirittura un patto di mutuo soccorso con Gnutti, primio alleato di Fiorani nell’assalto alla Antonveneta, per sostenersi a vicenda anche nella scalata a Bnl. (ibidem)
Di Ricucci, odontotecnico di Zagarolo trasformatosi in immobiliarista vincente, poco si conosce, e resterà una meteora, nota più che altro per il suo flirt con Anna Falchi in quelli che metaforicamente si potrebbero definire “i quindici minuti di celebrità” di Wharol. Ma chi è Chicco Gnutti, un nome stampato anche nella memoria di Massimo D’Alema? Un finanziere particolare, collezionista di auto d’epoca. Figlio di un sarto, cresce nel quartiere Lamarmora, unica zona rossa della democristianissima Brescia. Sposato con una presidentessa di circoscrizione Ds, inizia vendendo avvolgimenti per motori elettrici, poi ha scoperto la finanza e il sistema per far soldi alla velocità della luce. La svolta per egli risale al 1999, con “la madre di tutte le scalate”: l’Opa su Telecom, la compagnia telefonica nazionale privatizzata due anni prima dal governo Prodi e controllata con una minuscola partecipazione dalla Ifi della famiglia Agnelli. Gnutti, con un gruppo di industriali bresciani suoi amici, si mette sulla scia del ragioniere mantovano Roberto Colaninno, un ex manager Olivetti di Carlo De Benedetti, protagonista del successo del secondo gestore telefonico italiano Omnitel e intenzionato ad acquisire il primo gruppo imprenditoriale del Paese. Nel febbraio 1999 Colaninno, Gnutti e centottanta imprenditori, ai quali poi si unisce l’Unipol di Consorte, lanciano l’assalto a Telecom attraverso la Bell, una società lussemburghese amministrata da Romano Binotto, ex braccio destro di Pino Berlini, cioè del manager che fino ai primi anni Novanta gestiva la cassa estera delle tangenti del gruppo Ferruzzi. Binotto fu protagonista non secondario, anche se mai indagato, della maxitangente Enimont, perché consegnò una valigia con 20 miliardi di lire in contanti a Sergio Cusani, ufficiale pagatore di Raul Gardini. Curiosità: la tangente al Pci-Pds è stata provata in sede processuale ma non è mai stato scoperto chi, ai piani alti di Botteghe Oscure, l’avesse ricevuta.

Ma torniamo al 1999. Al governo c’è Massimo D’Alema, con Pierluigi Bersani ministro dell’Industria e Vincenzo Visco alla Finanze. Poco prima del Natale ‘98 Colaninno espone il suo progetto a Bersani, che lo conduce a Palazzo Chigi a incontrare D’Alema. Il 7 gennaio 1999 Consorte acquista il 6 per cento di Bell e si siede al tavolo degli scalatori. L’Opa viene lanciata il 20 febbraio. Ventiquattr’ore prima, D’Alema scende pesantemente in campo in favore degli scalatori con il celebre elogio dei “capitani coraggiosi”: Colaninno, Gnutti, Consorte e compagnia Bell. La scalata si conclude dopo tre mesi di battaglia. Ma l’operazione trasforma Telecom in un castello di scatole cinesi. Al vertice c’è Hopa, la finanziaria bresciana di Gnutti e dei suoi soci. Hopa controlla Bell, che controlla Olivetti, che controlla la Tecnost, che ha la maggioranza della Telecom. Fra i fondatori della lussemburghese Bell risulta un misterioso Oak Fund (fondo Quercia), con sede alle Cayman, dietro al quale si celano capitali di proprietà ignota. Non appena i giornali scrivono che alla testa di Bell c’è Romano Binotto, la società cambia improvvisamente presidente: quello nuovo è Raffaello Lupi, noto fiscalista collaboratore del ministro Visco.(ibidem)

Piccola digressione: le Cayman torneranno nella storia della sinistra finanziaria. Nel 2012 Davide Serra, operante a Londra con società con sede alle Cayman e finanziatore di Matteo Renzi, farà un polverone sui media per una polemica con Bersani, all’epoca sfidante del suo beniamino: un “nuovista” inglese “caimano” che fa il paio col nuovista politico Renzi, a cui la burocratjia del Pd, cambiando le regole delle primarie (apertura del voto ai non iscritti al partito), stranamente spalanca le porte della vittoria.
Il silenzio risulta quasi omertoso, nel mondo politico, circa le relazioni fra la sinistra e il mondo finanziario, iniziate ufficialmente con lo scandalo del sostegno alla scalata di Unipol a Bnl incrociata a quella di stampo leghista di Fiorani. Sin d’allora D’Alema e Sposetti, il tesoriere Ds che due anni dopo, alla vigilia della fusione nel Pd, sarà artefice della blindatura dell’immenso patrimonio del partito in oltre cinquanta microfondazioni corrispondenti alle federazioni locali, hanno dettato la linea asserendo la legittimità di un dialogo col capitalismo moderno, anche a tv e stampa. Esemplificativo è il modo con cui il leader Massimo zittisce il conduttore della trasmissione , Giovanni Floris, reo di avergli chiesto lumi sulla telefonata del 14 luglio 2005, quando Consorte chiese a D’Alema di Vito Bonsignore, socio di Bnl, eurodeputato dell’Udc e affarista nel settore autostrade.

D’Alema: «Ho parlato con Bonsignore, che dice cosa deve fare, uscire o restare un anno… Se vi serve, resta… Evidentemente è interessato a latere in un tavolo politico». Consorte: «Chiaro, nessuno fa niente per niente».

Come premesso, D’Alema non sarà mai neppure indagato e l’iter giudiziario si concluderà con un’assoluzione per Consorte e gli altri imputati. Ma il punto è politico e morale. Floris non fa in tempo a domandare cosa sia quel tavolo politico a latere che D’Alema lo tronca: “Lei non si preoccupi”.

(Il video è stato rimosso da YouTube)

Uno dei pochi a rompere il muro di gomma, ancora una volta, è Achille Occhetto. Nel 2013, in un’intervista esclusiva a Santachiara e Pinotti (I Panni sporchi della sinistra, Chiarelettere), Occhetto commenta l’atteggiamento di D’Alema e del tesoriere dei Ds Sposetti notando una stranezza: “Sono gli stessi che hanno rimproverato a Renzi di aver dialogato con la grande finanza. E credo che Renzi sia stato molto ingenuo perchè probabilmente avrebbe potuto rispondere per le rime su questo terreno”. Effettivamente molto ingenuo, oppure la inimicizia con D’Alema diffusa in modo ridondante da partito e media si rivela una finzione? A ben guardare Renzi si presenta come il grande avversario, il “rottamatore” della volpe del tavoliere, ma non affonda mai il colpo sul tema più scomodo per D’Alema, il tabù per antonomasia, se è vero che da quel fatidico 2005 il leader Massimo attua la personale strategia della sommersione. Dopo la rinuncia temporanea ob torto collo al Quirinale si ritaglia un ruolo internazionale, sulla scia del più esperto Napolitano, indi ministro degli Esteri e presidente della fondazione dei partiti socialisti europei, e in Italia lascia spazio allo scalpitante Walter Veltroni, che con il Pd a “vocazione maggioritaria” nel 2008 provoca la caduta del premier Prodi e va a schiantarsi alle urne, prevedibilmente, contro Berlusconi e la sua corazzata mediatica. Medesimo destino, 13  anni prima, era “toccato in sorte” a Occhetto ma – fateci caso – mai a D’Alema, vero punto di riferimento dei gangli territoriali del partito sin dagli anni Ottanta, attento a non “bruciarsi” persino quando, da presidente del Consiglio subentrato a Prodi, nel 2000, preferì dimettersi prima dello scontro elettorale con Berlusconi adducendo il pretesto dell’arretramento alle regionali. Lo scopo è sempre lo stesso: evitare di “bruciarsi”, come candidato premier bocciato dagli italiani, nella scalata all’ambito Quirinale.

Uscito di scena Veltroni, D’Alema si sistema un passo dietro Pierluigi Bersani e preannuncia la caduta del governo Berlusconi paventando imminenti “scosse”. A  profezia avverata promuove, secondo quanto riportato da , la stagione del premier Mario Monti, poi lancia Bersani alle elezioni del 2013 contro i temuti Cinque Stelle, unico corpo estraneo al sistema. La tripartizione dei voti costringe la partitocrazia a svelarsi nuovamente attraverso governi Pd appoggiati a turno da pezzi di centrodestra. Con il celebre “stai sereno” all’indirizzo del capo del governo (provvisorio) Enrico Letta, Matteo Renzi sale a Palazzo Chigi per rappresentare la discontinuità, il rinnovamento, la fine della vecchia politica. Siffacendo, cerca di sgonfiare mediaticamente i pentastellati, emulati nei toni e nell’uso del digitale. Alla prova dei fatti, invero, il renzismo si rivela la prosecuzione della partitocrazia in altra forma: in estrema sintesi, la riduzione dei diritti dei lavoratori con l’abolizione dell’articolo 18 e il Jobs Act era stata inaugurata dal pacchetto Treu (governo D’Alema) così come il finanziamento alle scuole private e l’attenzione al mondo cattolico,  l’ossessiva difesa dei privilegi dei parlamentari, il tentativo di riformare la Costituzione, l’attacco alla magistratura che indaga sui colletti bianchi sono tutti cavalli di battaglia di D’Alema, Berlusconi, Bossi e di quel che resta del vecchio pentapartito. E, appunto, i rapporti tra politica e mondo economico. Non solo Benetton, Ilva, energia.

Anche e soprattutto la finanza. Ergo, come nota  giustamente Occhetto, Renzi non cita mai, egualmente a Salvini, Bossi e Berlusconi, Meloni e il resto della partitocrazia, le telefonate di D’Alema a sostegno della più famosa scalata bancaria, quella dell’assicurazione Unipol alla Banca Nazionale del Lavoro. Le chiamate sono sparite, censurate, bandite dal discorso pubblico grazie alla partitocrazia tutta e al sistema mediatico che, fra l’altro, si regge sui contributi pubblici sanciti dal Parlamento. Nel merito del tabù Occhetto spiega che l’errore, nel dialogo con i poteri finanziari fu ovviamente quello “di assumere una posizione che contraddiceva uno dei principi fondamentali di un visione democratica e libera del mercato, cioè un’incursione di campo nelle regole. Gli arbitri non possono entrare in campo e giocare”.

LEFT, l’intervista integrale a James Galbraith

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Il gufo del deficit

James Galbraith è il “gufo del deficit” per antonomasia. Come il padre John Kenneth, gran consigliere di Roosevelt e di JF Kennedy, è fonte inesauribile di proposte di stampo keynesiano. Da Yanis Varoufakis all’amministrazione Obama, le scelte cruciali passano per l’illustre docente di Public Policy dell’università del Texas. Non troverete sue foto nella squadra di governo Usa o al fianco dell’ex ministro greco con cui ha scritto la Modest Proposal, perché Galbraith bada alla sostanza, quella che spaventa il mainstream e affascina il mondo della sinistra. Nell’intervista concessa in esclusiva a Left non usa mezzi termini per descrivere i disastri della troika che rifiuta di «riconoscere i fallimenti precedenti» e cerca di «distruggere il governo greco eletto». A suo avviso anche un accordo migliorativo  sul debito non basta, per la crescita economica e sociale è necessario costruire un’Unione europea che non sia solo monetaria.

C’è tutta la sua teoria economica, nel ragionamento. Per Galbraith occorre rovesciare il dogma neoliberale che considera lo Stato come una famiglia o un’azienda, perché il deficit di bilancio consente di realizzare «investimenti pubblici di capitale sia a breve che a lungo termine». E ancora: «Incrementare le tutele è una maniera semplice, diretta, progressiva e molto efficiente per prevenire la povertà e sostenere il potere d’acquisto di questa popolazione così vulnerabile». Manca solo, dunque, di convincere i socialdemocratici. Galbraith misura le parole ma considera possibile, per la sinistra, l’emancipazione dalla Terza Via: «Sta già accadendo, in Spagna e in Irlanda». Ma non gioite troppo presto: «Non accadrà in Italia», aggiunge, «a meno che il Pd non trovi coraggio e si faccia portatore di una visione differente»

Il governo Tsipras stretto all’angolo dalla Troika. Chi sono i maggiori responsabili di questa situazione?

La responsabilità principale è di coloro che hanno progettato un sistema economico così disfunzionale, di quelli che hanno voluto il disastroso salvataggio bancario del 2010 e della leadership europea attuale – inclusa la presidente del Fondo Monetario, Christine Lagarde – che hanno rifiutato di riconoscere i fallimenti precedenti.

Le teorie post keynesiane spiegavano gli effetti recessivi dell’austerity. Perché sono state così combattute, mai prese in considerazione?

Nella maggior parte dei casi, i mezzi di comunicazione mainstream riflettono gli interessi finanziari dei loro proprietari, che hanno davvero poco in comune con quelli dei loro spettatori o lettori, ecco perché.

Quali interessi? Perché il capitalismo finanziario teme così tanto le vostre proposte?

Pensavo, ad esempio, al signor Murdoch. Il fatto che abbia una preferenza per governi che facilitano il suo business e che si opponga a governi che invece sostengono gli interessi di una più ampia fascia della popolazione è una sorpresa? Spero di no.

L’amministrazione Obama, dopo la crisi del 2008, ha aumentato il disavanzo pubblico fino al 10 per cento del Pil per rispondere ai bisogni sociali. In che modo è stata influenzata dai suoi consigli?

Non ho avuto alcuna influenza sull’amministrazione Obama, al di là di alcune forme di supporto tecnico ad una forte manovra per la ripresa nel 2009 (il riferimento è al piano da 787 miliardi di dollari investiti in sanità, welfare, infrastrutture e riduzione delle tasse sul lavoro, nda)

Quali sarebbero le conseguenze per il paese ellenico e per l’Eurozona, in caso di Grexit?

Il problema di fare default dentro l’Eurozona è che la Bce controlla le banche, e può chiuderle, come sta già facendo. Presumibilmente, lo scopo è quello di distruggere il governo eletto, sostituendolo con un nuovo governo che obbedirà agli ordini e non opporrà resistenza. È un approccio molto miope che finirà per distruggere la credibilità e la legittimità della Bce, se non lo ha già fatto.

Quando l’Italia nel 1993 lasciò lo Sme per ridare ossigeno all’export il governo privatizzò e svalutò il lavoro. Come giudica un’eventuale uscita dall’euro attuando policy di sinistra per combattere le disuguaglianze?

Come in una famosa non-dichiarazione di Zhou En-Lai sugli effetti della Rivoluzione Francese: “È troppo presto per dirlo”.

Nella trattativa con l’Europa, pesa anche l’ipotesi che la Grecia finisca nell’orbita della Russia. Quale ruolo stanno giocando gli Usa?

I russi sono troppo furbi per dare sponda a questa sorta di provocazioni infantili, e i greci sono troppo intelligenti per pensare altrimenti.

Solo ora i media parlano di tradimento del progetto originario di Unione politica europea. Per una moneta come l’euro è necessario un sistema di trasferimenti fiscali tra Stati per riequilibrare le bilance dei pagamenti?

I trasferimenti fiscali sarebbero più utili se destinati agli individui piuttosto che agli Stati. Ad esempio: un fondo comune per i sussidi di disoccupazione, un’unione dei fondi di previdenza, ed altre forme di sostegno al reddito e di protezione sociale.

Complementarietà fra socialismo e keynesismo. Quali risultati potrebbe dare l’abbinamento di politiche redistributive, facendo leva su una forte tassazione progressiva, e piani strategici di investimenti pubblici?

Il keynesismo non ha bisogno del socialismo, e il socialismo non ha bisogno del keynesismo. Detto ciò, una politica di tassazione progressiva e di investimenti pubblici, che non è stata né socialista né keynesiana, ma ha combinato alcuni elementi di entrambe le politiche con un sistema di imprese capitalistiche e garanzia dei diritti dei lavoratori, ha funzionato molto bene negli Stati Uniti a partire dal New Deal di Franklin Delano Roosevelt fino alla fine degli anni ’60. E in Europa durante i “gloriosi trenta”.

 

(Left Avvenimenti, 18 luglio 2015)

Il libro “I panni sporchi della sinistra”: intervista di Affaritaliani

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Dalle amicizie pericolose di Bersani a quelle di D’Alema, dalle innovazioni ambigue di Renzi alle ombre dell’Ilva su Vendola. Fino al “nuovo compromesso storico” di Enrico Letta e ai segreti di Giorgio Napolitano. Non risparmia nessuno “I panni sporchi della sinistra”, il libro di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara (edito da Chiarelettere”) che mette a nudo le magagne del centrosinistra. Un lavoro importante e “lungo due anni”, come ha spiegato Santachiara intervistato da Affaritaliani.it, nel quale i due autori raccolgono e analizzano una serie di inchieste giudiziarie che riguardano, a vario titolo, il mondo della sinistra. Dalla galassia Bersani di Penati, Pronzato e Veronesi alla vicenda di Flavio Fasano, referente di D’Alema invischiato in una storia di mafia. Dallo scandalo Ilva al caso Unipol, passando per i trasferimenti di due magistrate, Clementina Forleo e Desirée Digeronimo (intervistata lo scorso settembre da Affari), che avevano indagato sulle responsabilità di importanti esponenti politici di sinistra. Pinotti e Santachiara ricostruiscono con dovizia di particolari tutta una serie di vicende, grandi e piccole, note e sconosciute, che offrono un ritratto impietoso di una sinistra che ha subìto “una mutazione genetica”. Il libro si apre con un esplosivo capitolo su Giorgio Napolitano, del quale vengono indicati i rapporti (o presunti tali) con Berlusconi, la massoneria, la Cia e i poteri atlantici. Un capitolo del quale Affari pubblica un estratto e che certamente farà molto discutere.

Stefano Santachiara, com’è nato il libro “I panni sporchi della sinistra”?

Mi sono occupato a lungo di cronaca giudiziaria per L’Informazione, un giornale emiliano, e tuttora come corrispondente del Fatto Quotidiano. E’ così che mi sono imbattuto in casi di malaffare, speculazioni edilizie, tangenti mascherate da reti di favori incrociati, rapporti con la criminalità organizzata. Spesso in queste vicende era coinvolto il centrosinistra. A Serramazzoni, in provincia di Modena, ho raccontato le prime contiguità acclarate tra ‘ndrangheta e Pd al nord, proprio nell’Emilia “rossa”. Quando L’Informazione ha chiuso i battenti nel febbraio 2012 ho sentito Ferruccio Pinotti e insieme abbiamo deciso di realizzare un libro-inchiesta: oltre ai casi giudiziari che riteniamo cruciali, abbiamo scavato sui centri nevralgici del “Potere democratico”, studiato documenti impolverati e inediti, raccolto nuove testimonianze. Man mano che si componeva il mosaico abbiamo effettuato collegamenti che ci consentono di analizzare la mutazione antropologica, etica e culturale, del partito erede del Pci di Berlinguer.

Il libro si apre con una serie di frasi di leader del Pd. Frasi che fino ad alcuni anni fa sembravano possibili da attribuire solo a politici del centrodestra. In che modo si è venuta a creare questa mutazione da voi definita “genetica”?

Questa mutazione è evidente, la si evince da molti aspetti a partire dalle politiche economiche. Ormai il Pd, sia nella classe dirigente che si perpetua da un ventennio sia nel nuovismo di Renzi, ha la stella polare più vicino al mondo della finanza che non a quello dei lavoratori. La sinistra moderna, non soltanto per la fusione con gli ex democristiani, ha cambiato visione di società mettendo in soffitta le prospettive del socialismo europeo e anche quelle keynesiane: per sommi capi possiamo ricordare che ha privatizzato reti strategiche nazionali, aperto al precariato con la legge Treu, ha appoggiato guerre della Nato, non si è prodigata per estendere i diritti civili, ha finanziato le scuole private invece di rilanciare l’istruzione pubblica e riportare la cultura (senza scomodare l’egemonia di gramsciana memoria) al centro dell’azione politica, infine si è allineata alla “dottrina” dell’ austerity imposta dall’Europa dei tecnocrati. In questo contesto ha sdoganato comportamenti come i conflitti d’interesse– anche propri, non soltanto quello noto di Berlusconi – e le opache relazioni con il potere economico e bancario tradendo i principi morali e di giustizia sociale che avevano animato la sinistra del passato.

La cosiddetta superiorità morale della sinistra non esiste più?

Sulla base delle inchieste giornalistiche condotte in questi anni e del quadro organico che abbiamo assemblato ci siamo persuasi che, nei fatti, questa diversità non esiste più.

La struttura del vostro libro sembra suggerire che il padre di questa mutazione della sinistra sia Giorgio Napolitano. È così?

Napolitano è un garante dei poteri forti. È il comunista borghese collaterale al Psi di Craxi e favorevole, già negli anni Ottanta, ai rapporti con Berlusconi. Trovo significativa una sua frase, pronunciata quando si insediò al ministro degli Interni nel primo governo di centrosinistra della Seconda Repubblica, nel 1996. “Non sono venuto qui per aprire gli armadi del Viminale”, disse Napolitano facendo intendere di non voler indagare sui tanti segreti italiani irrisolti. Una dichiarazione che è tutta un programma.

Nel libro viene citata tra l’altro una fonte anonima che sostiene l’appartenenza di Napolitano alla massoneria…

L’appartenenza di Napolitano alla massoneria non è provata. E’ l’opinione della nostra fonte, noto avvocato figlio di un esponente del Pci, il quale riconduce le famiglie Amendola e Napolitano, interpreti della corrente di pensiero partenopea “comunista e liberale”, alla massoneria atlantica. Anche l’ex gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Giuliano Di Bernardo, ipotizza per il presidente della Repubblica l’affiliazione ad ambienti massonici atlantici. Ma siamo nell’ambito delle opinioni. E’ invece emerso da un documento datato 1974, l’Executive Intelligence Review, che Giorgio Amendola, il mentore di Napolitano, era legato alla Cia. Napolitano fu il primo dirigente comunista ad essere invitato negli Stati Uniti. Andò in visita negli Usa al posto di Berlinguer, a tenere confererenze nelle università più prestigiose: proprio nei giorni del rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Un episodio che chiarisce quanto Napolitano fosse, sino da allora, il più affidabile per i poteri atlantici e che spiega almeno in parte la sua ascesa.

Insomma, Napolitano grimaldello degli Usa per portare il Pci a posizioni più allineate al potere atlantico?

Napolitano ha saputo muoversi perfettamente. A livello pubblico e ufficiale è sempre stato fedele al partito, sostenendo la causa di Togliatti persino nella difesa dell’invasione sovietica di Budapest nel 1956, poi come “ministro degli Esteri” del Pci. In maniera sommersa ha coltivato relazioni dall’altra parte della barricata, accreditandosi a più livelli di potere, italiani e internazionali.

Alla luce di quello che scrivete nel libro sui rapporti tra Napolitano e Berlusconi ritieni credibile che tra i due ci fosse stato un accordo su un qualche tipo di salvacondotto giudiziario per il leader del centrodestra?

I rapporti tra Berlusconi e Napolitano vengono da lontano,dai tempi della Milano da bere, quando la corrente migliorista del Pci spingeva per lo spostamento del baricentro dalle posizioni di Berlinguer a quelle di Craxi. Il rampante Berlusconi finanziava il settimanale della corrente migliorista, Il Moderno. Negli anni Napolitano si è confermato uomo del dialogo nei confronti di Berlusconi, contro il quale non ha mai espresso posizioni fortemente critiche. Ha promulgato senza rinvio lodi e leggi ad personam che sono stati poi bocciati dalla Corte Costituzionale, in queste settimane ha parlato di amnistia proprio dopo la condanna definitiva di Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset.

Nel libro parlate anche delle magagne di tutti gli altri attuali leader della sinistra. In particolare delle amicizie sbagliate, o quantomeno pericolose, di Bersani e D’Alema. Per quanto riguarda i rapporti di forza sembra venir fuori che D’Alema è la serie A e Bersani è la serie B. E’ così?

La frase su serie A e serie B è riferita a una fase del Penati gate. A un certo punto Di Caterina, prima finanziatore del partito e poi teste d’accusa nel processo a Penati, fa riferimento a un affare immobiliare senza rilievo penale. Un affare che vorrebbe Di Caterina ma che si sblocca solo quando palesa il proprio interessamento la società Milano Pace del salentino Roberto De Santis, imprenditore che si autodefinisce “fratello minore di D’Alema”. La galassia dei dalemiani è molto composita e ben presente anche nel campo degli affari. Nel libro parliamo anche della vicenda di Flavio Fasano, dimenticata dai quotidiani nazionali. Fasano era il referente di D’Alema nel quartier generale di Gallipoli: da sindaco gli ha organizzato regate e incontri decisivi come il pranzo con l’allora segretario del Ppi Rocco Buttiglione che nel 1994 creò le condizioni per il ribaltone del governo Berlusconi poi affossato dalla Lega di Bossi. Un uomo di fiducia, insomma. Ecco, nel 2008 si è scoperto che Fasano aveva rapporti con Rosario Padovano, un boss della Sacra Corona Unita di cui era stato avvocato anni addietro. Da una telefonata intercettata emerge che Fasano gli dispensava consigli pochi giorni dopo che Padovano aveva fatto uccidere il fratello. Non bisogna esagerare definendo Fasano come il “Dell’Utri di D’Alema” però la vicinanza di un suo fedelissimo ad un capomafia è un fatto poco noto…

Nel libro raccontate le vicende di due magistrate, Clementina Forleo e Desirée Digeronimo (vedi l’intervista di Affaritaliani.it al pm Digeronimo, ndr). Entrambe, dopo aver lambito D’Alema e Vendola con le loro inchieste su Unipol e sulla Sanitopoli pugliese, sono state trasferite per “incompatibilità ambientale”. Questo significa che in alcune procure chi indaga su leader politici di sinistra viene isolato e punito?

Di certo vi è stata una degenerazione, mi riferisco al peso improprio che le correnti della magistratura hanno assunto in seno ad Anm e Csm, che in alcuni casi hanno trasferito, punito e isolato i magistrati non allineati. Se da un lato si è manifestato un atteggiamento demeritocratico e doppiopesista dall’altro però non si può affermare come fa Berlusconi che siano tutte toghe rosse o che la magistratura sia eterodiretta dalla politica. Preferisco restare ai due casi specifici. Quando il Tar ha annullato il provvedimento di trasferimento della Forleo a Cremona deciso dal Csm, l’Anm ha criticato la sentenza. Eppure il sindacato delle toghe, ogni volta che Berlusconi attacca i giudici, ribadisce giustamente che le sentenze vanno rispettate. Nel procedimento sulla scalata di Unipol a Bnl D’Alema e Latorre potevano essere indagati per concorso in aggiotaggio, ma nonostante le indicazioni del gip Forleo sulla base delle loro scottanti telefonate con Consorte i pm di Milano non lo hanno fatto… Quanto al secondo caso, il sostituto procuratore di Bari Digeronimo – che ha scoperto il marcio di un sistema sanitario regionale piegato a interessi partitici e affaristici – è stata attaccata da Vendola pubblicamente, in stile berlusconiano, senza ricevere appoggio alcuno. Pochi mesi fa è finita nel mirino del Csm per aver segnalato insieme al collega Francesco Bretone i rapporti di amicizia tra la sorella di Vendola e Susanna De Felice, cioè il gup che ha assolto il governatore della Puglia nel processo relativo alla nomina di un direttore sanitario grazie alla riapertura dei termini del concorso. Il Csm ha ottenuto il trasferimento della Digeronimo accusandola di conflittualità con i colleghi, la stessa accusa mossa a suo tempo alla Forleo: condizioni fisiologiche in ogni ufficio e slegate dall’attività giurisdizionale.

Al di là del caso di Serramazzoni, sembra che l’interesse del Pd riguardo i temi dell’antimafia sia piuttosto basso. È così?

È così e la prova la si è avuta nella scelta dei candidati per le elezioni del 2013. In Calabria sono state escluse sindache antimafia come Caterina Girasole, Elisabetta Tripodi e Maria Carmela Lanzetta. In Emilia è stato dimenticato Roberto Adani, ripetutamente minacciato per aver denunciato presenze mafiose e colletti sporchi. Nando Dalla Chiesa non è stato più ricandidato dal 2006. Malgrado i proclami elettorali c’è scarsa attenzione su questi temi. In questi giorni si parla tanto dei “signori delle tessere” e sembra quasi che ci sia una guerra tra loro e i maggiorenti del Pd. Ma non è così: i “signori delle tessere” sono stati candidati dai leader nei listini bloccati per una precisa strategia che ha invece escluso chi ha rischiato la pelle combattendo le cosche.

Una volta si pensava che le mafie fossero politicamente orientate a destra. Oggi guardano anche a sinistra?

Anche se la maggioranza di casi riguarda ancora il centrodestra, come abbiamo visto si registrano le prime collusioni mafiose dei democratici.

(intervista di Lorenzo Lamperti)

Link all’intervista di Affaritaliani

“I panni sporchi della sinistra”, la recensione de linkiesta

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feltrinelli

(Un momento della presentazione di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara alla Feltrinelli di Milano)

Dopo Tangentopoli il potere politico tutto, di centrodestra e centrosinistra, […]
non si è affatto preoccupato di prendere provvedimenti per contenere la corruzione, ma semplicemente di contrastare e rendere più difficili i processi. Il centrodestra lo ha fatto in modo talmente spudorato da risultare vergognoso […]. Ma il centrosinistra ha dimostrato abilità più sottili […]: cose passate in silenzio, senza il clamore delle leggi ad personam, ma che hanno reso più difficile contrastare i fenomeni. (Piercamillo Davigo)

Questo è uno dei “pretesti” con cui Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara aprono l’ultima pubblicazione di Chiarelettere, I panni sporchi della sinistra. «Corruzione, relazioni ambigue, scelte incomprensibili, patti col nemico, strategie autolesionistiche. Le contraddizioni si addensano come tante nubi oscure sulla crisi del centrosinistra. La mancata vittoria della coalizione guidata da Pier Luigi Bersani alle elezioni politiche del febbraio 2013 è figlia di una classe dirigente incapace di rispondere ai bisogni del suo popolo e del Paese. Le primarie sembravano aver cancellato, nell’espace d’un matin, gli errori e le pesanti vicende giudiziarie che hanno coinvolto e coinvolgono uomini chiave della gauche nostrana», spiegano gli autori nell’introduzione, e particolarmente interessante dalla lettura del libro risultano essere proprio quelle inchieste giudiziarie che hanno coinvolto gli uomini del Partito democratico e più in generale della parte sinistra dell’arco parlamentare. Anche su questo versante, scrivono Pinotti e Santachiara, «il Pd pare privilegiare l’interpretazione “berlusconiana” del consenso elettorale, posto a lavacro onnicomprensivo della questione etica: l’esclusione di amministratori antimafia diviene l’altra faccia della medaglia di signori delle tessere e indagati che si arroccano nuovamente in parlamento».
Nelle 400 pagine de I panni sporchi della sinistra italiana non mancano infatti pagine dedicate al lavoro delle procure nei confronti di esponenti del Partito democratico e della sinistra italiana, che si intersecano inevitabilmente con le guerre intestine interne al partito. Una prima vicenda riguarda l’attuale sindaco di Roma, Ignazio Marino, che, per il pm di Crotone Pierpaolo Bruni avrebbe «avuto la strada sbarrata al Sant’Orsola (ospedale di Bologna, ndr) per essersi contrapposto all’onorevole Luigi Bersani nella corsa all’elezione di segretario del Pd».
A Bologna – scrivono Pinotti e Santachiara – la procura chiede e ottiene l’archiviazione del procedimento per l’assenza di una violazione di legge o regolamento, ma il quadro che emerge è sconfortante: «Nonostante i medici abbiano negato, nelle telefonate intercettate i riferimenti sono indubbi e tracciano un desolante quadro di sudditanza politica delle scelte anche imprenditoriali di un’azienda ospedaliera di primaria importanza». Insomma, la corsa alle primarie del luglio 2009 sarebbe costata al senatore Ignazio Marino, chirurgo specialista nei trapianti di fegato, l’ingresso all’ospedale Sant’Orsola Malpighi di Bologna nonostante un preaccordo datato fine aprile.
Allo stesso modo il libro ricorda le indagini che hanno portato l’attuale segretario regionale del Pd in Emilia Romagna e coordinatore della campagna di Matteo Renzi per le primarie, Stefano Bonaccini. Abuso d’ufficio e turbativa d’asta le accuse con una sentenza che arriverà dieci giorni prima delle primarie del Partito democratico. Sempre in terra emiliana c’è un’altra indagine, che sarebbe stata tenuta “in freezer” fino alla fine del 2012, che riguarda la storica assistente personale di Pier Luigi Bersani, Zoia Veronesi, convocata dal pm bolognese Giuseppe Di Giorgio come persona indagata per truffa aggravata ai danni della Regione Emilia Romagna. Da Bologna le carte passano per competenza a Roma e sotto la lente di ingrandimento ci finisce un conto corrente cointestato di Veronesi e Bersani, che ancora oggi imbarazza l’ex leader del Pd.
Sul versante giudiziario Pinotti e Santachiara fanno pochi sconti e mettono nero su bianco casi spesso confinati alle sole cronache locali o specializzati. Su tutti i legami tra gli uomini del partito e la criminalità organizzata. Ancora poco noto è il caso di Serramazzoni, comune in provincia di Modena, «il primo caso di rapporti tra mafia e politica, e in particolare col Pd, accertato in Emilia Romagna», che viene ben sviscerato dagli autori del libro così come i rapporti poco chiari con la criminalità organizzata pugliese e Flavio Fasano, ex sindaco democrat di Gallipoli e uomo forte di Massimo d’Alema, arrestato nel 2010 per corruzione. “L’inchiesta nasce dall’inchiesta del Ros dei Carabinieri collegata all’omicidio del capo clan della Sacra Corona Unita, Salvatore Padovano, detto «Nino Bomba», ucciso dal fratello Rosario, che appena tre giorni dopo l’omicidio venne sorpreso dal Ros al telefono proprio con l’ex sindaco Fasano”.
E se a “stupire” sono le indagini che si fanno, su altri versanti sono quelle che non si fanno o che si fermano. I due giornalisti citano i casi delle azioni Milano-Serravalle, le vicissitudini del gip Clementina Forleo e Digeronimo, che più volte hanno incrociato uomini importanti della sinistra nelle loro indagini, da D’Alema a Vendola, per poi chiudere sul caso Mps: «Dallo scoppio dello scandalo comunque è tutta la nomenclatura del Pd a prendere le distanze pubblicamente dal “groviglio” senese, che non ha più nulla di armonioso. Potrebbe trattarsi di un atteggiamento gattopardesco o di una mossa per prendere tempo, in attesa che su questa vicenda, così come sul sostegno dei Ds alla scalata di Unipol a Bnl, cali l’oblio. La sinistra ha cambiato identità e valori, si occupa più di banche che di fabbriche, ma obbedisce ancora al motto delle vignette satiriche di Guareschi: “Contrordine, compagni”».

(Luca Rinaldi)

Link alla recensione de linkiesta

Tramonto Rosso, articolo de Il Giornale

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Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d’Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini.
È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d’inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l’uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all’interno di uno dei tribunali più importanti d’Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni.
Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n’è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l’ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell’Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l’isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l’emblema dell’intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo.
Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D’Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell’ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all’uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini.
Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un’indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.
(Patricia Tagliaferri)
Link all’articolo de Il Giornale

P.S.: la rettifica richiesta è stata pubblicata su Il Giornale del 17 settembre 2013 vedi immagine al link
Scrivo riguardo all’articolo di domenica 15 settembre 2013 a firma Patricia Tagliaferri e dedicato al mio libro in uscita per Chiarelettere “Tramonto Rosso”, scritto a quattro mani con Ferruccio Pinotti. Non intendo entrare nel merito delle sue previsioni degli argomenti e sulla relativa libera interpretazione ma soltanto ricordare che, prima che un blogger come sono stato definito nel pezzo, sono un giornalista: iscritto all’albo dal 1999, cronista di nera e giudiziaria presso testate giornalistiche in Emilia Romagna, dal 2009 corrispondente del Fatto Quotidiano.

Testi (Coop Nordest): “Riaccendiamo la voglia di sinistra”

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REGGIO EMILIA – Mentre si vivacizza il dibattito attorno ai candidati alla segreteria, crescono le adesioni alla Nuova sinistra Ds. Ne parliamo con chi è stato fra i primi firmatari della mozione Due: Renzo Testi, presidente di Coop consumatori Nordest e già sindaco di Correggio dal 1963 al 1976.
Come nasce «Nuova sinistra»?
«Negli ultimi tempi tante persone anche nostri elettori hanno perso fiducia nella politica intesa come impegno e partecipazione, finendo col rinchiudersi sempre più nel privato. Per riaccendere una speranza occorre ridare senso e identità ad una sinistra che rischia di smarrire i suoi connotati originari. E di non saper dispiegare un pensiero critico così come una reale politica di cambiamento».
Come immagina i Ds del 2000?
«In tre parole: associazione, progetto, società. Un partito federalista dove pesino sempre più gli iscritti e meno gli apparati, capace di elaborare un progetto di trasformazione della società e di ridurre il fossato tra governanti e governati».
Oggi invece…?
«D’Alema e Veltroni tendono a far prevalere la Realpolitik, sacrificando tematiche sociali e programmi in nome di governabilità e accordi di schieramento. La disaffezione dei cittadini è l’inevitabile conseguenza dell’appiattimento della Sinistra su posizioni centriste e moderate».
Da cosa ripartire per riaccendere la voglia di sinistra?
«Dalla riattualizzazione di valori come giustizia sociale, pace, solidarietà, propri del socialismo italiano ed europeo, di cui il riformismo emiliano è stato parte significativa. Credo nello sviluppo di una economia sociale che possa coniugare efficienza e solidarietà sul modello cooperativo, introducendo nel liberismo un concetto di responsabilità sociale ed ambientale. Inoltre, in periodi di attacchi alla magistratura e del cosiddetto “processo giusto”, diventa irrinunciabile la questione morale. Quanto una politica per la pace in Europa, intesa come unione dei popoli più che delle monete».
Lei firmò con don Dossetti l’appello per il cessate il fuoco nella ex Jugoslavia…
«Occorre dare maggiore autorevolezza e capacità di intervento all’Onu, che non dovrà più essere scavalcato dalla Nato per decisioni riguardanti le sovranità di popoli e paesi. Bisogna andare verso un governo mondiale che possa legittimamente assumere l’ingerenza in difesa dei diritti umani».
L’abiura del comunismo da parte di Veltroni?
«Un’abiura non necessaria e comunque sbagliata. Perché si finisce con l’accomunare in modo semplicistico Est europeo e tradizione comunista italiana, che i conti col passato li ha già fatti, in cui gli errori sono di gran lunga inferiori ai meriti. Due su tutti: il decisivo apporto nella lotta di Resistenza e le battaglie democratiche del dopoguerra per le riforme e i diritti dei lavoratori».
Com’è stata accolta la mozione dalla maggioranza?
«Non cerchiamo contrapposizioni ma di riaprire un dibattito interno sui contenuti, un confronto che qualcuno sta cercando di spostare sul toto segretario».
Tra Marchi e Masini, quale candidato appoggerete?
«E’ prematuro indicare preferenze. Non si può trasformare la discussione nei congressi di base di un referendum o plebiscito per la scelta del segretario. Personalmente sosterrò il candidato che al congresso provinciale esprima programmi condivisibili e si impegni per attuare un cambiamento del gruppo dirigente e del modo di far politica».
Stefano Santachiara
Gazzetta di Reggio