Capitolo III

Nel capannone degli attrezzi del fabbro una decina di persone stava discutendo animatamente. Il progetto di Silvio avrebbe dato lavoro nel periodo dell’anno in cui sull’isola manca la risorsa del turismo. Tuttavia alcuni, senza sospettare minimamente dello smaltimento illecito dei rifiuti, già avevano notato le pesanti ripercussioni ambientali del progetto di cementificazione. “Avanti, spostiamo i camion che dobbiamo ricevere i materiali entro sera”. Uno dei lavoratori più giovani non partecipava alla discussione, stava battendo col martello sul ferro con costante impegno. Il titolare dell’azienda, Duillio, gli si avvicinò con aria torva. “Sei ancora a metà? Più svelto Emanuele, più svelto”. Il ragazzo non rispose, proseguendo in modo leggermente più veloce. Faccia pulita, capelli corti e sempre ordinati, occhi scuri, fisico atletico e altezza oltre la media anche se passava un terzo della giornata piegato a lavorare.

Lele: “Ma avevi detto che potevo staccare prima oggi… “.

Duillio: “Se prima non finisci te lo scordi”.

Lele:“Mia cugina compie gli anni… “.

Duilio: “E mia zia li ha fatti il mese scorso, allora? Se non finisci entro mezzanotte ti licenzio, intesi?”

Il padrone uscì sbattendo la porta, due operai lo seguirono chiedendogli lumi sui materiali in arrivo. Emanuele rallentò il ritmo, pian piano progressivamente fino a fermarsi. Gettò il martello sul bancone da lavoro. “Pimpulupampulupalimpampù”. La filastrocca che gorgheggiava da piccolo, quando giocava fra gli animali della fattoria di famiglia, gli echeggiava immaginifica. Dalla vetrata alta del grigio capannone, fra le assi di ferro e le lamiere, l’olio e la polvere, sognava la montagna: le capre felici che si rincorrono fra i rigogliosi alberi ricchi di foglie e di profumi, sostenuti da una terra fortemente mineralizzata, luccicante nelle facciate di granito riflesse dal sole. Non vi era mai salito, lassù a mille metri di altezza. Forse perché era cresciuto in una famiglia molto povera di contadini, dove nessuno poteva permettersi il lusso di un’automobile né di perdere tempo in una escursione d’alta quota. Invero Lele era un bimbetto molto attivo, instancabile, che amava immergersi nella natura ad ogni occasione. Aveva cominciato a lavorare molto presto, ma neppure le lunghissime giornate nei campi a raccogliere l’uva e le olive avevano fiaccato la sua voglia. La sera, mentre genitori e zii, dopo una frugale cena al tramonto, si ritiravano nelle stanze, lui usciva al chiarore delle stelle. “Amavo contarle, ma erano così tante da perdere sempre il conto. Assegnavo a ciascuna un nome”. Con l’arrivo della bella stagione correva a perdifiato sulla prima collina, sovente cadeva o si rotolava volutamente per poi stendersi col naso all’insù, non di rado restava accoccolato nell’erba fino al sopraggiungere di Morfeo. Quelle dormite erano meravigliose, dense di sogni e di profumi. All’alba poi, rischiando di rincasare tardi e di prendersi una sonora sgridata, nelle giornate più calde, si tuffava nel grande fiume che sorgeva in montagna.

Anche adesso Lele avrebbe desiderato farlo. Sentiva l’unto sul viso, la polvere sotto la maglia della salute, era abituato a conviverci, come fosse una seconda pelle, parimenti il ferro battuto era la colonna sonora del film della sua esistenza professionale. Ma l’abitudine e la necessità nulla possono all’erompere dell’inconscio. Emanuele bramava di correre sulla montagna per fare ciò che in venticinque anni non aveva mai fatto: vedere il mare dall’alto, scoprire la sorgente di quel flusso d’acqua fresca delle sue aurore di libertà, attendere assieme il crepuscolo in attesa dello splendore galattico: il mare sotto, il fiume accanto, le stelle sopra. Di animali ne aveva incontrati diversi, soprattutto gli asini abbondavano fra gli agricoltori. Quei musi lunghi dal passo lento gli erano sempre stati simpatici. Non perché trasportassero il granito, le damigiane di vino e gli altri prodotti, ma per la loro intelligenza, dai più disconosciuta ma ben presente ai lavoratori della terra. Se un asino è stremato, per le dure fatiche o per il caldo eccessivo, non c’è ordine o scudisciata che possano convincerlo a riprendere il cammino. Aveva scoperto molto tardi, e in rare occasioni, le pecore e le capre, di cui aveva sentito tanto parlare. Era ghiotto del loro latte, che aveva sempre assunto in quantità smisurata da quando la madre aveva finito di allattarlo. Il liquido genuino e fresco era un toccasana per tutti gli abitanti, ma il numero dei pastori si era andato riducendo nel corso degli anni. Gli ultimi che ancora praticavano l’allevamento sull’isola non transitavano quasi mai per la zona della fattoria e del capannone dove si trovava adesso Emanuele. Quando capitava però che l’anziano pastore scendesse dalla montagna con l’asino e il cane, il ragazzo non mancava mai. In città i suoi coetanei avevano interessi più convenzionali, durante le cerimonie ufficiali facevano a gara per conquistarsi un posto in prima fila al passaggio dei campioni dello sport o per i soldati col pennacchio. Lui invece riusciva a percepire l’arrivo dell’allevatore e lasciava la zappa, incurante dei rimproveri dei cugini più grandi, per corrergli incontro. Dopo un saluto caloroso che riempiva d’orgoglio il pastore, l’attenzione di Lele si concentrava praticamente solo sulle pecore e sulle capre. I loro sguardi teneri e puri erano fonte di curiosità e allegria, ci si specchiava arrivando a sfiorare le loro testoline senza alcun timore. Seguiva poi le paffute amiche nei movimenti, chiedendosi quali erbe preferissero brucare e scatenando la propria immaginazione sulle relazioni sociali fra di esse. Sarebbe rimasto ad accarezzarle per ore, affondando le mani nella loro lana morbida e accogliente.

Emanuele, ripensandoci adesso, volava con la fantasia. Gli parve di sentire il calore delle coccole, i loro belati, e guardando fuori dall’alta vetrata del capannone vivificava le nuvole, disegnandole con la mente come arruffate caprette. Quando l’energumeno che stava all’interno, una sorta di addetto alla sicurezza dell’azienda, se ne uscì a fumare nel cortile, lui corse verso l’ufficio del titolare. Duilio era uscito per depositare alcuni documenti fiscali. Lele salì in piedi sulla scrivania per raggiungere una finestrella. Scivolò maldestramente su alcune fatture disseminate sul tavolo, dando una gran botta al ginocchio. Ma il dolore passò in un baleno, il tempo di contemplare lo spicchio di montagna sul cielo dell’isola. Con un salto degno d’un atleta olimpico si aggrappò al pertugio, trascinandosi lentamente ci si infilò con il capo. Malgrado fosse smilzo ci entrava appena, pertanto dovette spingere strofinandosi contro i lembi della finestra. La scelta era assolutamente irrazionale. Sarebbe potuto andare in montagna alla sera, dopo l’orario di lavoro, oppure, se il suo intento fosse stato quello di fuggire per sempre dal capannone, sarebbe bastato non ripresentarsi l’indomani. “Sicuramente avrei dato un dolore alla mia famiglia, ma il signor Duilio, che mi minacciava non di rado di licenziamento, non avrebbe fatto tante storie. Certo, mi avrebbe decurtato tutto il de… rubabile, ma mi avrebbe rimpiazzato senza problemi”. Allora perché quella fuga diurna? Davvero era così importante passare in pasticceria per comperare la torta di vino, pinoli e uvetta per la cugina? No, forse Emanuele aveva concepito in quel preciso istante ciò che desiderava realmente nel suo avvenire. “Pimpulupampulupalimpampù” disse volando fuori dalla finestra per atterrare sull’asfalfo.

Alex Ferrini, che nel film interpreta Emanuele il pastore